Beatles week, quel provino finale sul tetto gelido della Apple

Beatles week, quel provino finale sul tetto gelido della Apple

“Vorrei dirvi grazie a nome del gruppo e di tutti noi e spero che abbiamo passato l’audizione”.

E’ quasi la una del pomeriggio del 30 gennaio del 1969. Londra è spazzata da un gelido vento aguzzo. I quattro musicisti abbandonano i loro strumenti. Sono vestiti in modo improbabile. Il batterista ha una cerata rossa lucida. I due chitarristi delle pellicce inguardabili, il bassista sembra essere appena tornato da un pranzo di nozze, indossa un elegante ma fuori luogo completo nero stazzonato con gilet e con la barba lunga e incolta, lui che non la portava mai.

Prima di allontanarsi dal microfono dice una cosa tipo: Avete suonato un’altra volta sui tetti e lo sapete che alla mamma non piace! Ora vi farà arrestare.

In effetti attorno ai quattro ragazzi, che non stavano facendo un audizione, che bisogno avrebbero di farla? Sono più famosi di Gesù, dicevamo attorno a loro ci sono alcuni Bobby, i classici poliziotti londinesi che li scortano via, un po’ imbarazzati e un po’ divertiti.

Hanno appena interrotto quello che passerà alla storia come l’ultimo concerto dei Beatles. Un set affascinante e scalcagnato di 42 minuti, con un freddo terrificante. Sul tetto della Apple, non quella di Steve Jobs, quella non esisteva ancora, dire Apple negli anni ’60 significava visualizzare l’etichetta di un disco con una mela verde. Era la casa discografica dei Beatles, un esperimento fallimentare in realtà.

L’idea di salire sui tetti del palazzo della loro casa discografica era venuta qualche giorno prima. L’improvvisato show avrebbe dovuto chiudere il progetto Get Back, il nuovo disco degli scarafaggi. Ma non esiste nessun disco con questo titolo. Al limite una canzone. I Beatles avevano deciso di tornare a suonare assieme, in presa diretta, tutti in uno studio, come all’inizio. Come quando in una sessione di 12 ore filate registrarono il disco d’esordio Please Please me, erano solo 7 anni fa… eppure sembra un eternità.

Registrarono montagne di nastri. Alla fine di ogni giornata il tutto veniva affidato a Glyn Johns per cavarne qualcosa. Ma a cavare qualcosa da quella che gli stessi Fab four definirono “una montagna di merda” fu un altro produttore: Phil Spector. Uno che arrivò e prese in mano la situazione escludendo i musicisti dalla loro produzione e fece un po’ quel diavolo che gli pareva… e a ragione.

Ma era già passato del tempo da quel concerto sui tetti della Apple, forse l’unico, l’ultimo, momento felice della vita assieme dei 4 baronetti che hanno cambiato la storia della musica. In mezzo c’era già stato un altro album, Abbey Road, quello famoso dei 4 che attraversano la strada sulle strisce pedonali e che ha una copertina zeppa di riferimenti alla morte di Paul… già ma questa è un’altra storia, magari la vedremo dopo.

Poi ognuno se ne era andato per la sua strada. Chi appresso ad un sogno e chi appresso ad un incubo.

Quando Let it be, lascia che sia, arriva nei negozi la storia dei Beatles è già finita da un bel po’, siamo all’inizio del decennio che cambierà ancora la storia della musica e il gruppo che più la musica ha cambiato sarà solo uno spettro tra le nere trame dell’hard rock nascente.

E’ l’8 maggio del 1970. In quei 35 minuti e 13 secondi ci sono dentro alcune delle canzoni che tutti conoscono e alcune canzoni al limite dell’inascoltabile. I produttori accreditati risultano essere due lo storico George Martin e Phil Spector.

Colui che ha fatto di “una montagna di merda” un disco vendibile. Si. Ma quello che avrebbe potuto essere una sorta di disco solista di Paul McCartney diventerà una delle più grosse discussioni e liti della storia della musica.

Spector era famoso per aver inventato il muro del suono, l’uso massiccio di sovra incisioni per rendere il suono pieno. E così fece anche quella volta. Prese delle canzoni registrate in presa diretta basso, chitarra e batteria, spesso slabbrate e svogliate, e vi mise sopra archi, violini e un sacco di altre diavolerie elettroniche.

Soprattutto violentò The Long and Winding Road che nella mente dell’autore avrebbe dovuto essere una tenue ballata voce e pianoforte e divenne una roba da big band americana.

L’ultimo dissidio che portò il disco quasi ad essere rinnegato. E poi Let it be, lascia che sia, the end, fine.

Insomma fine…. La fine in questi casi, si sa, non arriva mai. L’ultimo pezzo. Non a caso, si intitolava Get Back, ritorna. E puntuale Leti t be tornò 33 anni dopo. Nel novembre del 2003 Paul fece uscire un Let it be naked, nudo. Una versione del disco che sarebbe, secondo lui, la più vicina possibile a quello che avrebbe dovuto essere il progetto iniziale.

In verità un disco finito presto fuori catalogo. Nella ristampa masterizzata lanciata in grande stile qualche anno fa tornò infatti al suo splendore l’originale Let it be, perché si sa… alla fine i monumenti sono difficili da restaurare.

Emanuele Mandelli

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