I racconti del Motel, non andiamo oltre ai tre milioni di dollari

I racconti del Motel, non andiamo oltre ai tre milioni di dollari

Capitolo secondo

La finestra guardava sull’autostrada. Alla reception mi avevano avvisato: tutte le finestre delle nostre camere guardano sull’autostrada. Certo, altrimenti che cazzo di Motel sarebbe? Anonimo, perché vorrei proprio conoscerlo quell’automobilista frettoloso che spende un battito di ciglia per quel monoblocco in stile sovietico rinascimentale. Mi sentivo al sicuro. Lì ero giunto su precise indicazioni della Centrale con un’auto di servizio camuffata da taxi: due valigie e mi fermo per circa una settimana. Documenti prego e prego signore, stanza 999, all’ultimo piano, come richiesto. Se desidera qualche coperta, siamo a sua disposizione. Le auguro un proficuo soggiorno, accennando al lungo bancone del bar, dove alcune signore stavano sorseggiando un drink.

La finestra guardava sull’autostrada, ma anche sul parcheggio del Motel.

Il mio compito era… Aspettavo che si facesse vivo il mio contatto e da quel riquadro trasparente in doppio vetro guardavo il traffico scorrere, lento e inesorabile nei due sensi di marcia. Automobili una diversa dall’altra, che si muovevano in un gioco di brevi sorpassi, di rincorse, di accostamenti, quasi che fossero indipendenti dai rispettivi conduttori.

La mia attenzione fu attratta da un camioncino che in quel momento stava annaspando alla ricerca di uno stallo dove sistemarsi. Colorato come un incendio boschivo di ampie proporzioni, sulle fiancate portava la dicitura “Giocattoli per tutte le età”. Ne scesero due tizi che di più non potevano contrastare con il mezzo: Finto Borsalino grigio ferrato, occhiali scuri, soprabito in tinta, braghe in mezza flanella spiegazzate  e scarpe lucidate. Più un paio di voluminose valigie. Il mio sesto senso suonava l’allarme, per cui in fretta e furia scesi al bar, per controllare la situazione. Se quelli erano i miei contatti, ti saluto.

Dall’altro lato del lungo bancone era rimasta solo una “coperta”, decisamente attraente, la quale mi sparò un sorriso da far tremare il testosterono. Scese dal suo sgabello e si avvicinò: “Salve, mi chiamo Ekaterina Kattacikova. Voglio presentarti alcuni amici. Vendono giocattoli per conto della Repubblica socialista ungherese.”

I due, senza profferire parola, aprirono i bagagli. Per pura cortesia offrii loro un bicchiere di vino bianco, ma la loro mercanzia era superata, vecchia, inadatta alle esigenze dei bambini del luogo. “Tu compra queste cose”, disse la donna, “poi c’è sorpresa.” Chiesi un time out e mi misi in contatto con la Centrale: “Se c’è la sorpresa, compra, ma a prezzi stracciati. Per il resto, non oltre i tre milioni di dollari.”

La finestra guardava sull’autostrada e il traffico era sempre lo stesso, monotono e allo stesso tempo caotico. Pensavo che tra pochi giorni le cose non sarebbero state più le stesse. Stavo  per introdurre sul mercato occidentale una genialata della madonna: il Cubo di Rubik.

Beppe Cerutti

 

 

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