Il calvario delle caregiver

Il calvario delle caregiver

Se diventare madre per una lavoratrice è l’inizio di una corsa a ostacoli, avere la sventura di dare alla luce un bambino con disabilità non rappresenta soltanto una ferita che non sarà mai più rimarginata, ma significa anche intraprendere un percorso impervio, anzi un vero e proprio calvario a causa della carenza di servizi di supporto.

Il lavoro riabilitativo, è vero, avviene nei centri specializzati, ma poi il carico maggiore grava sulla famiglia e, per lo più, sulle spalle delle donne. Il bambino con disabilità, poi, diventando il centro dell’attenzione, conduce spesso la madre a trascurare se stessa, il proprio partner e gli altri eventuali figli e ciò non può che produrre ripercussioni pesanti in termini di rapporto di coppia e in generale di equilibrio familiare (già reso fragile dall’evento traumatico) nonché di carriera lavorativa. E ancora: chi si trova a vivere in tale difficile situazione, con un “minimo di 50 ore settimanali di cura”, ha il doppio di “probabilità di avere problemi di salute”. Non a caso la maggioranza delle madri non resiste e abbandona il lavoro, perdendo così la sua indipendenza economica e privando la società delle proprie competenze.

La soluzione? Riconoscere come un vero lavoro quello delle caregiver: solo così la madre avrebbe la libertà di “fare questo lavoro di cura ed essere considerata dalla società come lavoratrice a tutti gli effetti”, oppure se dotata di talenti spendibili in ambito professionale, “potrebbe ingaggiare un caregiver esterno”. Avrebbe, in altre parole, “il diritto di scegliere ed eliminare sensi di colpa, inadeguatezza, impotenza e inutilità” (Giovanna Barra: si veda il saggio in “Donne al lavoro”).

E che ne è dei bambini disabili una volta cresciuti? Nonostante il diritto al lavoro riconosciuto sia in sede internazionale che nazionale, la discriminazione persiste ancora, una discriminazione che si è accentuata dopo la crisi del 2008. E nel nostro territorio? Dal gennaio del 2017 i percorsi di accompagnamento al lavoro sono stati alcune decine, ma poi solo quattro persone hanno avuto un contratto effettivo. Ne parlano in “Donne al lavoro” Margherita Martinenghi e Angelo Marazzi che, tra l’altro, riportano tre testimonianze tutto sommato riuscite: i casi di Rosangela Martinenghi che, disabile a 9 anni in seguito a un incidente, ha trovato lavoro come fotocopista presso il Comune di Crema, di Silvia Bonzi, che, dopo “un percorso di inserimento lavorativo protetto” è diventata collaboratrice del laboratorio creativo dell’Anffas e di Doretta Lacchinelli, sposata con due figli, che dopo diverse esperienze di lavoro e formative, è stata assunta dall’Anffas come educatrice.

Testimonianze positive, ma la strada da percorrere, nonostante l’impegno encomiabile delle associazioni di volontariato, è ancora lunga. Molto lunga.

Piero Carelli

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