La memoria della ringhiera, Selene

La memoria della ringhiera, Selene

Mi piaceva tanto che per lei mi sarei buttato a capofitto dentro un bidone di marmellata, anche se non l’avevo mai in vista in faccia. Faccia? Ma che dico?! Viso, visino, e su quella parte nascosta della Luna ci ho ricamato sopra fino a farmi venire la scarlattina. Andar fuori e girarle intorno neanche a parlarne: timido trovavo sempre una giustificazione, perché poi magari si chiamava Loredana e mi bastavano quelle che c’erano in corte e anche negli altri caseggiati. Una inflazione di Loredane. E allora, se proprio corte doveva essere, meglio immaginare quelle grandi, con palazzi adorni di stucchi, di velluti e di ori; ma fu una delusione perché le regine dei libri erano una più brutta dell’altra.

Così la chiamai Selene e non certo perché l’avevano insegnato a scuola: Domenico Modugno fu, che andava raccontando in giro che il peso sulla Luna è la metà della metà.

In effetti mi sentivo come una bolla di sapone e mingherlina era la mia Selene, che però mai si girava verso la finestra dalla quale la guardavo con trepidazione. Non che non si girasse mai, questo no, perché si guardava intorno, come tutti. È che quando intuivo che ne accennava il verso, io istintivamente abbassavo gli occhi sul libro, rosso di vergogna. Così succedeva, tra mille sospiri e occasioni perdute.

Mi ero innamorato dei suoi capelli, con la farfallina che un poco li tratteneva e tanto mi inebriava, e da su in giù sentivo l’odore vago di naftalina del suo cappottino, e quello di lavanda della gonna, delle calze bianche, il lucido delle scarpe e anche quel metro quadrato di marciapiede sapeva di cose buone come quando entri in una pasticceria.

Poi arrivava puntuale lo scappellotto di mia madre: “Va avanti a studiare e lasciala perdere, stupidotto, che lo sai bene che sta aspettando il suo papà che torna dal lavoro.” Perché in effetti era così: il babbo arrivava e insieme, complici di chissà quali segreti, se ne andavano verso casa, dandomi le spalle.

Dunque? Ah sì, bisognava studiare: che lagna i verbi irregolari, che palle le frazioni, per me sempre rimaste un mistero e anche Scipione detto l’Africano m’era diventato antipatico.

Selene, Selene dove sei? Alla stessa ora del pomeriggio era sempre lì, e anch’io, dietro il vetro, a fantasticare.

Finche arrivò il giorno della catastrofe.

Perché quel giorno, prima del papà apparve il mio compagno di banco, al quale io, pirla, avevo raccontato tutte le mie pene d’amore, cantandogli a più non posso la somma bellezza del lato sconosciuto di Selene.

“Oh la madonna”, si limitò a commentare quella viscida serpe. Ed ora eccolo lì a fare lo stronzo con la mia Selene, come se niente fosse, senza nessuna premura dell’incombente arrivo della figura paterna che, quando si palesò, sorrise e passò una carezza sui capelli unti di quella spudorata faccia di merda. Poi tutti e tre, insieme, si avviarono verso casa, sempre dandomi le spalle.

Il giorno dopo l’affrontai a muso duro.

E a muso duro mi disvelò la verità: “Oéi pirla, guarda che quella lì è mia cugina.”

“Chi, Selene?”

“Ma che Selene e Selene, deficiente! Si chiama Loredana.”

Beppe Cerutti

La foto è stata presa dalla pagina facebook Milano sparita e da ricordare
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