Le indagini del maresciallo Moresco, il nome

Le indagini del maresciallo Moresco, il nome

Questa volta morti non ce ne sono, ma è soltanto il racconto di “bizzarrie” di gente povera che costruiva antidoti alla miseria e alla fame frugando tra i segni del destino, cercando di dare un significato alla propria vita. A quei tempi, amore era una parola difficile, ma quando metteva radici…

Non c’era un cazzo da fare, quella storia lo perseguitava fin da quando era bambino: Calabiano Moresco, oggi maresciallo dei carabinieri, figlio del fu Omero. A volte i nomi di battesimo sono un bel problema, se non si sa il perché. Calabiano! Dapprima ci soffrì, per gli sberleffi dei coetanei, poi ci fece l’abitudine e infine trasformò il tutto in motivo di vanto, ad onore della inquieta quanto solare origine dei genitori: terroni.

Fu mamma a raccontargli la storia, in un pomeriggio strambo che la rese sospettosa per l’insolita arrendevolezza di quel suo figlio normalmente scapestrato, penultimo di una mezza dozzina concepita e partorita nell’arco di un pellegrinaggio durato una quindicina d’anni, prima che il padre scelse di lasciare la divisa dell’Arma in cambio di quella molto più scialba di messo comunale: in busta paga mancava l’indennità di rischio, una miseria, ma conteneva una tacita assicurazione sulla pelle, capace di offrire stabilità alla famiglia fin’allora nomade, tranquillità alla madre e la solita, innocente indifferenza ai giochi dei figli, che ben presto s’abituarono all’idea di avere amici stanziali domani, tra un mese, tra un paio d’anni.

Calabiano confessò il cruccio alla madre Natuzza, vezzeggiativo mediterraneo chiamato a sostituire una battesimazione provocatoria e fuori luogo: Fortunata, e quando mai? Le disse che preferiva restare in casa perché s’era stufato di prendersi a botte con gli altri della scuola, sbruffoni per quantità ma, ognuno dotato di fervida e velenosa fantasia, efficaci nel dileggio dietro l’angolo: “Mamma, mica posso andarli a cercare uno per uno e spaccarci la faccia!”

“I verbi, figlio mio: e a chi vorresti ‘spaccare’ le faccia?”

“Fetentoni, Ma’, che tengono nomi… normali. Antonio, Peppino, Nunzio, Ciro, Carmelo… E dai che li conosci pure tu!”

“Bianuccio mio, figli di Dio e di madri onorate sono, che si spaccano la schiena insieme ai loro uomini. Voi siete giovani e ancora avete tante cose da imparare. Ma il tuo nome non è una croce. Ti ha mai preso in giro un adulto? Chi sa, sorride e pure con un poco c’invidia! Chiedi a tuo padre!”

“Calabia’ ora non ho tempo, chiedi a tua madre.”

“Mamà, allora?”

“Calabiano? Semplice, romantico e, scusami l’espressione, con una incazzatura che non ti dico. No, ti dico.”

Entrambi sradicati da terre dimenticate, dove una zolla di terra dava quattro soldi solo se ti rompevi la schiena e dicevi sissignore, Natuzza e Omero si conobbero sul finire della guerra. A Biella ci arrivarono per strade diverse benché parallele: fresca di magistrali aveva palesato il desiderio di fare la maestrina, ma siccome nella terra degli ex Borboni l’offerta di cultura elementare era quattro volte superiore alla domanda, se voleva insegnare doveva andare al Nord. Un posto libero, da quelle parti sicuramente c’era. Prendere o lasciare. Madonna santa, sai quanto schizzinosi sono quelli!?

Prese la via della lana e sai “figlio mio, mi portavo appresso una valigia di cartone.”

Per Omero, invece, a prescindere dal bagaglio, galeotto fu il servizio militare: recluta agli ordini di un equivoco comando alleato ai confini iugoslavi, sempre turbolenti e dove l’italico soldato contava come il due di picche, oppure tutore dell’ordine pubblico in patria, consolidata ma minacciata dalla subdola propaganda bolscevica. Prendere o prendere e così, sollecitato imperiosamente dell’ufficiale, prevalse la linea patrilineare: carabiniere sul Continente. Che fosse comandato in mezzo alla nebbia, però, nessuno glielo aveva detto. Dopo ringraziò Iddio.

Si sposarono in posto che poi diremo, e figliarono per amore. Lei e lui con gli occhi neri che solo loro potevano guardare il sole, anche se continuavano a stupirsi del fatto che i residenti portavano occhiali scuri anche in autunno: “Natuzza, a me sto sole mi sembra avvolto nella paglia!” “Omero, santo cielo, la sai bene che questi poveretti l’unico sole che vedono è quello della polenta. Mo’, quando arrivano le arance da casa nostra… Sembrano bambini, come noi, buttano le bucce sul fuoco per sentire l’odore del caldo, della famiglia. Poveri, lo vedi anche tu dove sono nati, però vedi anche che quando arriva il sole qui c’è farina per tutti…”

“Non ci sono le olive, l’origano manco sanno cos’è e i pomodori li mangiano che sono ancora verdi. Per non parlare delle melanzane e dei fichi. Risotto, risotto e ancora risotto. Natuzza, questi sono barbari!”

“Vedi, Calabiano…” Finalmente tra di loro potevamo permettersi il lusso di dire qualcosa anche sul cibo: “Papà tuo s’era innamorato di quelle verdure che nascono dove c’è tanto freddo e ha lasciato perdere un paio di briganti per una ‘bagna cauda’. Non so come spiegartelo, ma ci sentivamo liberi dalle solite costumanze nostre.”

Liberi, ma non del tutto dalle costumanze del parentado, che avrebbero dovuto essere tenute in considerazione. Mamma, inizialmente, era incline alla tradizione e così si scontrarono attorno alla fonte battesimale. Prevalse l’opinione paterna: il primo nato si sarebbe chiamato Primo e avrebbe tracciato la via a nuove nomenclature, del tutto svincolate dalle tradizioni. Natuzza declinò il capo con un sorriso sornione quanto quello di megera babilonese: “Chissà cosa penseranno i nostri parenti?!” Inorridiva all’idea di un seguito decimale e fu dunque ben felice quando dalla terra lontana giunsero risentite incazzature: “I nonni, soprattutto se defunti, hanno i loro diritti”, facevano sapere da laggiù, e in fondo sono soltanto quattro, di cui due hanno lo stesso nome. A loro sarebbe stati intitolati i susseguenti nascituri. Che le gerarchie predefinite potessero venire sconvolte dalla nascita di una bambina non passò per la testa a nessuno: alla piccola toccò in dote il nome di Calogera, ma poi la pianificazione rientrò nella consuetudine e Salvatore e Gesualdo completarono le discendenze.

Alla quinta gravidanza, esauriti gli obblighi, Natuzza si parò davanti al marito con la determinazione di una spartana: “Se pensi di chiamarlo Quinto ti giuro che me ne vado!” Omero, che per la verità la strada dei numeri aveva già iniziato a batterla, si sentiva comunque sicuro: “See… con tutti i defunti che abbiamo sotto le zolle dure ti ritrovi con la fila davanti alla porta.”

“E chi ha parlato della Magna Grecia? Me ne torno a Biella e la creatura la chiamo come mi pare!!!”

Un fulmine a ciel sereno! Omero abbracciò la moglie ancora irrigidita di rabbia e sussurrò: “Ricordi il nome del paese dove ci siamo conosciuti e dove mi beccarono con il muso dentro la ‘bagna cauda’?”

“Callabiana…”

“Sì, là mi salvasti la vita, perché quei due erano briganti per davvero. Tra qualche mese me ne regalerai un’altra, di vita, nostra. Se è maschio lo chiameremo Calabiano.”

“E se è femmina?”

“Natuzza, è maschio e non fare scherzi!”

“Vedi, Bianuccio mio”, disse la donna accarezzando la testa del figlio, “non fu la prima volta ma di sicuro l’ultima che la tua mamma ebbe uno svenimento per amore.”

 

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