Vent’anni dopo …

Vent’anni dopo …

Prologo

In una stanza del palazzo Cardinale, che noi già conosciamo, a lato di una tavola con gli angoli d’argento dorato, ingombra di carte e di libri, stava seduto un uomo con la testa appoggiata a tutte e due le mani.

Dietro a lui vi era un vasto caminetto, rosso di tizzi che andavano a cadere su larghi alari dorati. La luce di quel fuoco accendeva il magnifico abito di quell’uomo pensoso, illuminato di fronte dalle luci di un candelabro carico di candele.

Quella cappa rossa e quei ricchi merletti, quella fronte pallida e curva sotto il peso della meditazione nella solitudine di quel gabinetto, il silenzio delle anticamere rotto soltanto dal passo cadenzato delle guardie, avrebbero potuto far pensare che lì ci fosse ancora l’ombra del cardinale di Richelieu.

Ohimè! Era soltanto l’ombra di quel grand’uomo. La Francia indebolita, l’autorità del re decaduta, la nobiltà ritornata debole e turbolenta, il nemico che aveva oltrepassato le frontiere: tutto testimoniava che Richelieu non c’era più.

Ma ciò che soprattutto dimostrava che la cappa rossa non era quella del vecchio cardinale, era quell’isolamento che, come abbiamo detto, si addiceva più a un fantasma che a una persona viva; quei corridoi vuoti di cortigiani, quei cortili pieni di guardie, uno spirito corrosivo che saliva dalla strada penetrava attraverso i vetri in quella stanza come se tutta una città, concorde contro il ministro, portasse lì dentro il suo soffio: infine rumori lontani e continuamente rinnovati di colpi di fucile tirati fortunatamente senza scopo e senza risultato, ma soltanto per far vedere alle guardie, agli Svizzeri, ai moschettieri e ai soldati dislocati attorno al palazzo Reale, perché il palazzo Cardinale aveva cambiato anch’esso nome, che anche il popolo aveva le armi.

Quel fantasma di Richelieu, era Mazzarino. Ora, Mazzarino era solo e si sentiva debole.

(Alexander Dumas: Vent’anni dopo)

 

Antefatto

 

Roma – nel sesto anno del regno di Tiberius Iulius Caesar Augustus, il secondo imperatore romano – era già una grande città, la capitale dell’impero. Caius Secondus Bettus, vi aveva fatto ritorno da poco, dopo un lungo periodo passato in Palestina; aveva lasciato gli incarichi pubblici ed era tornato a svolgere la sua professione, quella di Magister rei aedificatoriae. Ma la vita non era più quella di prima: nonostante lo sfarzo, si avvertiva diffidenza e le congiure di palazzo erano all’ordine del giorno.

Caius Secundus, tutto preso dal vortice della vita quotidiana, si era dimenticato quasi tutto del suo periodo passato in Oriente… non aveva più centurioni che gli curassero la scorta, non spettava più a lui tenere a bada le teste calde dei fanatici religiosi che, per anni, avevano sobillato il popolo ebraico… e forse lo stavano facendo ancora.

Certamente Caius Secundus si era dimenticato anche di quella sera, vent’anni prima, in cui tornando al suo palazzo di Betlemme aveva assistito – quasi per caso – a quell’evento: quella grande luce che aveva invaso la stretta via dove stava camminando, la coda imponente di una stella che indicava una direzione precisa, un brusio di gente spaurita coperto da una dolce e soave melodia. E poi la grotta, con all’interno mamma, papà e un bambino … unico sollievo il fiato caldo di un bue e di un asino. E, ancora, quella voce che ripeteva “Oggi è nato per voi un Salvatore…”. Dopo qualche tentennamento, aveva pensato che non fosse un sogno ma l’inizio di una grande avventura di cui lui era involontario testimone. Ma, a distanza di vent’anni, nulla di quell’evento aveva avuto un seguito e, ormai, il suo ricordo pareva svanito nell’oblio del tempo.

 

 

La storia

 

Come vent’anni prima, Caius Secondus era tutto preso dai suoi pensieri, nella sera di quello che nel calendario moderno sarebbe stato il 24 Dicembre dell’anno venti d.c.. Come tutte le sere, stava tornando a casa, tardi, dal suo studio in cui aveva comparato – come al solito – i suoi progetti con quanto scritto nel “De Architectura” dell’amico Marcus Vitruvius Pollio, morto da ormai cinque anni. Tra le strade buie e quasi deserte, nella sua mente i ricordi si alternavano alle preoccupazioni del presente, in modo molto ingarbugliato: ancora frammenti della sua vita passata, le notizie preoccupanti delle campagne militari di Tiberio, … e poi, gli impegni di lavoro del giorno successivo, le scadenze, perfino le tasse da pagare. Quante cose, quante preoccupazioni cui pensare!

 

Come al solito da ormai diversi anni, non era tranquillo, Caio Secondo, né avrebbe potuto esserlo con il peso delle responsabilità che la vita ogni giorno gli riversava sulle spalle: non un grande onere ormai, quello di un uomo comune che vive la sua vita quotidiana con la famiglia e che, arrivato a sera, vorrebbe poter dire di aver svolto onestamente il suo compito. Ma comunque un peso, che ogni giorno si faceva sempre più grave.

 

Ancora una volta, come vent’anni prima, nulla lasciava presagire che di lì a poco sarebbe successo l’imprevedibile… la serata era fredda, era stata una giornata pesante. Aveva appena attraversato il foro Romano ed era in prossimità dell’arco di Augusto, quando qualcosa gli impose di fermarsi. Sembrava l’ombra di se stesso, un fantasma vagante. Ora Caius Secundus era solo e si sentiva debole: succedeva sempre così, da vent’anni, da quella notte… e non capiva il perché. Le notizie ricevute dagli amici rimasti in Palestina non raccontavano di nulla di eccezionale; la solita routine, nessun seguito a quell’evento cui aveva assistito e che gli aveva fatto battere il cuore. Quando gli capitava, dopo essersi inutilmente sforzato di cambiare pensiero, gli ritornavano alla mente alcune parole che aveva letto su alcuni testi ebraici:

 

“….Isaia 7:14: “Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.” Isaia 9:6: “Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato, e il dominio riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace”. Michea 5:2 “Ma da te, o Betlemme, Efrata, piccola per essere tra le migliaia di Giuda, da te uscirà colui che sarà dominatore in Israele, le cui origini risalgono ai tempi antichi, ai giorni eterni”.

Non aveva certezze, Caius Secundus. Solo quella voce ricorrente, di vent’anni prima: “Oggi è nato per voi un Salvatore…”. Era sicuro che non fosse stato un sogno e da allora era rimasto in attesa… un’attesa quasi inconscia di qualcosa che desse un senso alla sua vita, di un ideale in cui credere, di una speranza in un mondo nuovo! Si, una speranza, quella speranza che gli era rimasta nel cuore nonostante tutto e che gli provocava quella tensione interiore verso l’Eterno, verso quel Dio che ancora non conosceva, che sarebbe stato rivelato dieci anni dopo e che col tempo avrebbe imparato a conoscere e ad amare.

 

 

 

Epilogo

 

Duemila anni dopo…

 

Caius Secundus non poteva aver letto Alexander Dumas e, in particolare, “Vent’anni dopo”, il suo fantastico seguito a “I tre moschettieri”. Ma gli atteggiamenti dell’uomo, nel 20 d.c. come nel XVII secolo e come anche oggi non sono cambiati. Non abbiamo certezze, non c’erano allora e non ci sono oggi: solo speranze, speranze vere non illusioni.

 

‘I quattro amici si abbracciarono con le lacrime agli occhi. Poi si lasciarono con grande tristezza, perchè nessuno di loro sapeva se si sarebbero più rivisti.

D’Artagnan tornò in via Tiquetonne con Porthos … Arrivati all’Albergo de la Chevrette, trovarono i cavalli del barone già pronti. “Ascoltatemi, d’Artagnan”, disse Porthos. “Lasciate la spada e venite con me a Pierrefonds, a Bracieux, oppure a Vallon. Invecchieremo insieme, ricordando i nostri compagni.”

“No, no!”, rispose d’Artagnan. “Fra poco si inizierà la campagna e voglio parteciparvi, perché spero di guadagnarvi qualcosa.”

“E che cosa sperate di diventare?”

“Maresciallo di Francia, perbacco!”

“Ah! ah!”, rispose Porthos guardando d’Artagnan alle cui guasconate mai si era completamente abituato.

“Seguitemi, Porthos, vi farò diventare duca.”

“No”, rispose Porthos. “D’altra parte laggiù mi hanno preparato accoglienze trionfali, da far crepare d’invidia tutti i miei vicini.”

“A questo non posso fare obiezioni”, rispose d’Artagnan, che conosceva la potenza di vanità del neo barone.

“Arrivederci dunque, amico mio!”

“Arrivederci, capitano. E ricordatevi che in qualsiasi momento vorrete venire a trovarmi, sarete, nella mia baronia, sempre il benvenuto.”

“Si! Verrò, di ritorno dalla guerra.”

E dopo essersi stretti la mano con effusione, i due amici si lasciarono. D’Artagnan rimase sulla porta seguendo con gli occhi Porthos che si allontanava.’

 

(Alexander Dumas: Vent’anni dopo)

 

Anche Caius Secundus rimase fermo, con gli occhi fissi nella notte, quando già le prime luci dell’alba stavano per schiarire il profilo della città. Come avrebbe scritto più tardi San Bernardo di Chiaravalle “poiché viviamo nell’attesa della gioia intramontabile, nutriamoci di speranza”… Peccato che lo scriverà mille anni dopo, quando Caius Secundus non potrà certamente leggerlo.

Enzo Bettinelli

 

 

 

P.s. Ogni riferimento a fatti accaduti o a personaggi realmente esistiti è puramente casuale.

 

 

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