Anche in sala di rianimazione a Treviglio si lotta duro per combattere il virus e salvare vite umane

Anche in sala di rianimazione a Treviglio si lotta duro per combattere il virus e salvare vite umane

Gaia Robustelli è un’infermiera rivoltana (di Rivolta d’Adda, in provincia di Cremona) trentasettenne con laurea in scienze infermieristiche e un master in anestesia e terapia intensiva.

Lavora all’ospedale di Treviglio dal 2008. Dal 2010 opera presso l’unità di terapia intensiva dove è coordinatrice infermieristica.

Di seguito l’intervista che cha concesso alla pagina socialmedia del Partito Democratico, (Pd), rivoltano…

Qual è la situazione dell’ospedale di Treviglio ed in particolare della terapia intensiva?

La situazione è pesante perché ho la sensazione che ogni nucleo famigliare abbia una persona o conoscente che sta combattendo contro questa malattia. L’ospedale è cambiato tantissimo, si sono

dovuti chiudere dei reparti ed ora ci si occupa solamente di covid-19.

Il mio reparto, la terapia intensiva, era di 6 posti che sono stati portati a 8 e poi nella sala operatoria ne abbiamo ricavati altri 7 recuperando anche le strumentazioni: monitor, ventilatori, pompe diffusione medicinali.

Tra gli aspetti positivi c’è la grande collaborazione che si è spontaneamente creata fra colleghi di diversi reparti e la gratitudine della gente di Treviglio che ogni giorno ci fa avere in ospedale dolci, pizze, generi alimentari ed anche un grande sostegno morale che è importantissimo per noi.

Come vivi questo periodo? Hai timore?

Quando sei al lavoro non hai neanche il tempo di pensare alla paura, quando sei a casa ti vengono mille pensieri: se non hai commesso errori, se sei stata sempre protetta bene. Ovviamente la paura più grande è quella di portare a casa il virus ai miei genitori o alla mia famiglia, a mio marito o ai miei figli.

Tutti abbiamo paura, io e i miei colleghi, ma quando vedi che c’è cosi tanto bisogno un po’ riesci ad accantonarla.

Quali sono i maggiori problemi?

I maggiori problemi sono l’insufficienza di posti letto, ventilatori, farmaci e sopratutto personale sia infermieristico che medico. Per questo stiamo facendo turni continuati con pochissimi riposi, in questa situazione la stanchezza emotiva diventa anche più pesante di quella fisica.

Per quel che riguarda le attrezzature protettive le abbiamo razionalizzate al massimo, scarseggiano ed il rischio di rimanere senza esiste!

Quanto conta anche il vostro lavoro psicologico sui pazienti?

Quando arrivano in ospedale tutti i pazienti sono logicamente spaventatissimi e l’aspetto psicologico, che è importante anche in periodi normali, adesso è enormemente più grande. Specificatamente per noi in terapia intensiva però lo è meno, perché da noi i pazienti sono tutti intubati e sedati. Torna a contare quando superano la fase critica e tornano coscienti.

In 10 anni di terapia intensiva avevi mai vissuto una situazione paragonabile?

Assolutamente no, anche i miei colleghi più anziani non hanno mai vissuto una situazione del genere.

Ricordano la Sars del 2009, ma non era cosi prepotente ed invasiva.

Cosa dicono i vostri “tecnici”, c’è speranza di uscire dalla buca della pandemia?

Certamente usciremo da questa situazione disastrosa con più o meno danni e perdite, questo dipende molto da noi perché l’unico modo per limitare il virus è attenersi alle regole e non uscire di casa. Se non capiamo una cosa semplice e cioè che dobbiamo interrompere la spirale del contagio stando lontano gli uni dagli altri, c’è anche il pericolo che il sistema sanitario collassi.

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