Biagiarelli da Cremona: “La cucina italiana patrimonio Unesco? Difficile si realizzi tale scenario, propaganda per certa politica”

Biagiarelli da Cremona: “La cucina italiana patrimonio Unesco? Difficile si realizzi tale scenario, propaganda per certa politica”

I titoli sono tutti per ‘La cucina italiana candidata a Patrimonio Unesco’. Lo slogan è forte, patriottico, a presa rapida, chi è che non ha detto questa frase almeno una volta? E non a torto, intendiamoci, solo un pazzo potrebbe negare che la cucina del nostro paese sia una delle migliori al mondo. Se non altro per la sua varietà: Coldiretti aumenta di anno in anno il numero di specialità italiane censite, che hanno superato l’incredibile soglia psicologica delle 5000. Pane, formaggio, salumi, conserve, per non parlare poi delle ricette, innumerevoli nel senso più stretto del termine: non è possibile contarle. E tuttavia credo che sarà difficile ottenere l’ambito riconoscimento, per una serie di ragioni che andrò brevemente a spiegare.
Partirei da un aspetto più tecnico. Al momento le pratiche culturali legate al cibo classificate come Patrimonio Culturale Immateriale dall’Unesco, in tutto il mondo, sono 76. Si va dal rito del tè in Cina a quello del caffè in Turchia, dalla preparazione della Harissa tunisina a quella del Lavash, il pane armeno. Per non dimenticare poi quelle italiane: l’arte del pizzaiuolo napoletano, la cavatura del tartufo in tutto il paese. La maggior parte di queste, comunque, ha una caratteristica ben precisa: riguarda una pratica precisa, identificabile, connotata da un singolo prodotto o comunque da un perimetro molto ristretto. E anche quelle più inclusive, come la cucina messicana tradizionale, la Washoku giapponese o persino l’enorme gruppo della Dieta Mediterranea (patrimonio dell’Italia come di Cipro, Croazia, Spagna, Grecia, Marocco e Portogallo) sono però contraddistinte da una serie di elementi identitari comuni. La prima criticità è questa: qual è il tratto identitario della cucina italiana?
Sembra una domanda stupida, ma è cruciale, soprattutto alla luce della sua caratteristica principale, che come dicevamo la diversità. Cosa accomuna la cucina del sudtirolo a quella lucana, ad esempio? Cosa condividono le tecniche di cottura emiliane con quelle pugliesi? La cucina italiana è leggera come un’insalata caprese o pesante come una teglia di lasagne? È vegetale come un piatto di fave e cicoria o extra-carnivora come lo spiedo bresciano? Predilige il burro come in Lombardia o l’olio come in Calabria? Ha radici arabe come in Sicilia o francesi come in Piemonte? La diversità, che è poi la sua forza, diventa una debolezza quando si tratta di individuare un tratto comune, cosa che fa dire a molti addetti ai lavori, ma anche a semplici osservatori attenti, che ‘la cucina italiana non esiste’.
Nei confronti di quest’affermazione nutro dei sentimenti contrastanti. Da un punto di vista puramente teoretico sono d’accordo, mentre dall’altra parte è impossibile non riconoscere a certi piatti un carattere ormai nazionale. Il problema è che sono pochi, rispetto a quell’insieme variegato che pure è la vera essenza della nostra cucina. Se li usassimo a criterio, allora meriterebbe di essere Patrimonio Unesco ogni cucina del mondo, perché tutti i paesi hanno una decina di piatti tipici e il gusto soggettivo, sia pur largamente condiviso, non è un criterio sufficiente di elezione. Sono più buoni i tortellini o i pierogi, gli spaghetti alla Nerano o gli shvit ashi uzbeki? Qualunque sia la risposta, non è ciò che è l’Unesco è chiamata a determinare.
Ad oggi non c’è nessuna gastronomia nazionale che sia patrimonio Unesco, e tutti quelli che ci hanno provato hanno fallito. Come il Perù, ad esempio, che tenta di ottenere il riconoscimento dal 2008. Uno tra i tanti motivi per cui la domanda è stata respinta, ad ora già due volte, è che, citando un saggio del ricercatore di Antropologia Culturale all’università di Gottinga Raùl Matta, “la cucina peruviana appariva come un insieme largamente inclusivo la cui rappresentatività di un gruppo è difficile da misurare. La delegazione diplomatica (dell’Unesco) si aspetterebbe che il focus fosse su una pratica alimentare specifica, una conoscenza o una tecnica”. Non vedo come la risposta alla domanda italiana potrebbe essere in qualche modo diversa. Diverso è il discorso che riguarda le ‘cucine tradizionali’. Quella messicana, patrimonio Unesco dal 2010, viene definita in base ai suoi prodotti autoctoni (mais, peperoncini, cacao), a precise tecniche indigene di trasformazione (nixtamalizzazione), alla relazione con le comunità etniche native. La nostra cucina, a parte pochissimi esempi, non ha nessun legame con gli antichi romani, molti dei nostri ingredienti sono importati (pomodori, mais, riso per dirne tre) seppur indietro nel tempo e non abbiamo inventato nemmeno una particolare tecnica di cottura che non sia rinvenibile da altre parti del mondo. Per quanto riguarda il Washoku, ovvero l’insieme delle culture alimentari giapponesi, la loro presenza nella lista fa riferimento a un preciso spazio temporale, cioè alle tradizionali celebrazioni dell’anno nuovo. Non è quindi la cucina giapponese ad esser patrimonio Unesco, ma una sua particolare manifestazione.
Per questi motivi, temo che la candidatura italiana non avrà il riscontro che il comitato promotore spera. Ciò non toglierà nulla ai suoi pregi, ovviamente, ma temo che un eventuale ‘fallimento’ diventerà l’ennesima clava in mano a quella parte della politica che, da un po’ di tempo, usa la cucina come arma di propaganda. E sarà un peccato.

 

Così postò via social, Lorenzo Biagiarelli, nato a Cremona, cresciuto a Senigallia (città che ama molto di più). Per tanti anni ha vissuto di musica, cantando e suonando più o meno tutti gli strumenti, ma poi ha trovato la sua strada tra pentole, coltelli e mestoli e ha deciso di mettersi in cucina a sperimentare, elaborare e soprattutto a cucinare, e a raccontare la storia di questo fuoco continuo, sacro e profano insieme.

stefano mauri

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