Scrive Piero Carelli:

Lunedì 9 dicembre presso il Caffè Gallery, ore 21, presenterò il mio ultimo pamphlet (una sorta di testamento intellettuale). Magari, vi può interessare.

Un testo, il mio che conclude quello che io definisco il “ciclo autobiografico”, una risposta a un’esigenza
forte che ho avvertito giunto all’età del tramonto: l’esigenza di fare i conti con me stesso.
Tutto è partito dal mio CHIUNQUE TU SIA, la mia autobiografia “spirituale” (la mia tormentata ricerca sul
problema-Dio), poi è stata la volta di un’autobiografia di tipo “tradizionale” (una lunga lettera alla mia
nipotina, corredata da foto, in cui racconto le tante storie d’amore che hanno consentito a lei di esistere) e ora
questa Lettera aperta a Severino che costituisce la mia autobiografia “intellettuale”.
Un semplice espediente le􀆩erario la le􀆩era al mio Maestro?
In parte sì: qui mi occupo in gran parte di problemi che esulano dal pensiero di Severino.
In parte, però, no: non solo dedico un corposo capitolo ai suoi paradossi, ma in ogni capitolo altro non
faccio che valorizzare i suoi “a􀆩rezzi”: è questo che spiega il 􀆟tolo NEL SOLCO DI SEVERINO.
Distante da lui (io mi ritengo un “mortale”, come i greci chiamavano gli uomini, un abitatore della caverna)
e, nello stesso tempo vicino perché faccio largo uso dei suoi strumenti.
Ad esempio le categorie di “essere” e “non essere”, la maieutica non solo di socratica memoria, ma anche
severiniana (per lui la Verità alberga da sempre nella mente di ogni uomo), la critica alla “cultura del
frammento” e di conseguenza il suo approccio globale, la condanna dell’hýbris dell’uomo e della sua volontà
di potenza, la sua visione sacrale dell’essere…
Attrezzi, questi, con cui Severino costruisce il suo Teorema sublime, il suo Tempio degli dèi.
Attrezzi che io uso, invece, a uso dei mortali, a uso, appunto, degli abitatori della caverna.
Una “traduzione”, la mia”, di sicuro, ma una traduzione rispettosa del pensiero del Maestro.
Una “traduzione” la mia maieutica: non si tratta di andare alla ricerca, dentro di noi, di una presunta verità
(tanto meno della Verità), ma alla ricerca del proprio daimon (come lo chiamavano i greci): talenti,
sensibilità, capacità creativa, capacità di amare, in altre parole l’unicità di ciascuno di noi, per poi liberarlo:
una liberazione che è destinata a generare gratificazione nell’individuo (non è felice chi riesce a realizzare il
meglio di se stesso?) e nello stesso tempo a diventare una ricchezza per la società.
Siamo “unici”, ma tutto congiura contro:
la scuola livella,
il mondo del lavoro livella,
la stessa vita della coppia livella.
Siamo unici, ma questa unicità è spesso sepolta a causa a) della durezza della vita, b) della nostra pigrizia, c)
della nostra routine quotidiana.
E così non liberiamo per noi e per la comunità la ricchezza che abbiamo dentro.
Una traduzione l’uso che faccio della condanna di Severino alla “cultura del frammento”. Una cultura che a
mio avviso contagia un po’ tutti e ci impedisce
 in quanto “consumatori” di cogliere le nostre complicità con un sistema economico iniquo,
 in quanto “cittadini” di cogliere le nostre complicità perfino con le guerre,
 di leggere i fatti (ad esempio le due guerre in corso) con il giusto sguardo lungo della storia,
 di vedere le conseguenze a medio e lungo termine delle nostre decisioni politiche,
 di cogliere il nesso tra le nostre azioni e la salute del pianeta (o meglio della biosfera),
 di cogliere la relazione profonda tra l’individuo e la comunità.
Di sicuro la Verità (o verità) è l’Intero, ma l’Intero non è accessibile ai mortali.
Una traduzione il nostro dovere di cercare la verità: in un tempo in cui siamo travolti da una miriade di
opinioni (generate anche dall’Intelligenza artificiale) la scelta di rinunciare alla ricerca dei “fatti” è forte e
questo non può non preoccuparci: non è la scomparsa dei fatti, come scriveva Hannah Arendt, la strada
maestra che potrebbe condurci “ai lager”, al totalitarismo? Severino sacralizza tutto il reale in quanto attribuisce a ogni cosa ciò che da sempre è considerato divino:
l’eternità.
Nella mia “traduzione” mi limito a sacralizzare la vita umana: di qui l’affermazione del primato assoluto
della vita umana, della sua priorità nei confronti di qualsiasi valore. Una convinzione che in me è maturata
da tempo. Non è un caso che Patrizia de Capua nella sua postfazione ricordi il mi saggio UNA BANDIERA
CHE GRONDA SANGUE, vale a dire una mia rivisitazione del nostro Risorgimento in nome proprio del
primato della vita umana.
Un seguace di Tolstoj o di Gandhi, io? Non mi interessano le etichette. Un fatto è certo: in questo sono in
perfetta sintonia col papa Francesco.
Una posizione idealista?
Un punto di riferimento forte. Una sorta di idea regolativa alla Kant. Un’idea regolativa da coltivare e
praticare con la cultura della non violenza.
Un valore assoluto la vita umana, ma questo non significa una rinuncia ad altri valori come la Libertà
(Gandhi docet).
Di qui la messa in discussione
del principio “fiat iustitia et pereat mundus” (sia fatta giustizia a tutti i costi)
e dello slogan “guerra fino alla vittoria”.
La mia sensazione? Che oggi tutto sia considerato sacro (non solo la libertà, ma anche l’egemonia, le zone
d’influenza, l’orgoglio nazionale…) fuorché la vita umana.
Provo pure a valorizzare l’ardire di Severino, la sua sfida all’intero Occidente. Nella mia traduzione mi
limito a sottolineare l’esigenza di contrastare quella odiosa disuguaglianza e discriminazione che non è
prodotta dall’uomo, ma dalla casualità irresponsabile della natura che condanna milioni e milioni di persone
a vivere fin dalla nascita una vita che, talora, umana non è. Oggi, grazie all’editing genetico è possibile. Si
proceda con la massima cautela, all’interno di regole condivise, ma si proceda.
Se Severino, poi, tuona contro l’hýbris dell’uomo, io rubo un’immagine efficace di Heidegger: l’uomo è
“pastore dell’essere”. Di qui l’dea di una “filosofia del prendersi cura” e la stessa idea di “fraternità” in
chiave laica, una fraternità che abbiamo lasciato nel cassetto per oltre due secoli: se vogliamo scongiurare
l’Apocalisse che scelta alternativa abbiamo a quella di superare gli egoismi nazionali e comportarci tutti
“come se” fossimo fratelli?
Naturalmente non mi rifiuto di entrare nel merito della filosofia di Severino: ne evidenzio i paradossi, ma
senza ironia, con rispetto, puntualizzando il fatto che i nostri sono due mondi di riferimento del tutto
differenti. Giungo addirittura a non escludere la doppia verità: la verità luminosa di Severino e la verità
crepuscolare di chi “si crede” un mortale e si comporta “come se” fosse un mortale.
Non manco, tuttavia. Dal mio osservatorio di un abitatore della caverna, di sottolineare le due “trappole” in
cui è caduto il mio Maestro, trappole che l’hanno isolato non solo dal senso comune, ma anche dalla
comunità scientifica, nonché dalla stessa stragrande maggioranza dei filosofi (perfino i suoi stessi ex
assistenti storici l’hanno abbandonato).
Il nostro tempo?
Utilizzando una metafora di un filosofo dell’Ottocento, io parlo del “tempo dell’allodola” (che col suo canto
del mattino annuncia un nuovo giorno): il tempo delle “utopie realistiche” (anche contro quello che io
chiamo l’iper-realismo degli analisti di geopolitica), dei visionari pragmatici che operino in silenzio per
disinnescare le tensioni prima che esplodano, che si liberino dalla gabbia del “presupposto di conferma”,
contrastino la “cultura del nemico” e pratichino la cultura della pace. Anche sfidando il pensiero dominante.

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