Perché Sanremo è un po’ Proust: Cabini e Borghetti scelgono “Una vita spericolata”

Perché Sanremo è un po’ Proust: Cabini e Borghetti scelgono “Una vita spericolata”

E’arrivato Sanremo, viva Sanremo!

I negazionisti del Festival staranno già per digitare “machissenefregadisanremo, io non lo guardo mai”, autoconvincendosi che Sanremo abbia bisogno di essere visto per esistere nella vita di ciascuno di noi. Certo l’appuntamento televisivo è un po’ come il pranzo di Natale: malinconicamente entusiasta (o entusiasticamente malinconico) lungo di default e piacevole o meno a seconda dei commensali, salutato ad ogni finale con la frase cult di Riccardo Garrone, ma impossibile immaginare che non ci sia.

Sanremo è quella canzone orecchiabile da subito, quella che tutti fischiano o fischiettano, quella che diventa un cult, quella che ti fa esibire sotto la doccia, ma soprattutto quella che ti ricorda un momento, un periodo della tua vita o che traduce i tuoi stati d’animo anni dopo.

Da Crema a Sanremo, questa teoria è stata confermata: dagli artisti di professione, ai musicofili più appassionati, a chi la musica la ascolta per sbaglio tra un radiogiornale e l’altro, tutti hanno un ricordo particolare legato alle canzoni del Festival. Solo una persona mi ha risposto che non ha una canzone festivaliera nel suo cuore, ma si ricorda delle esibizioni dei superospiti stranieri negli anni della sua adolescenza, Spice Girls e Take That (quelli con Robbie Williams, che nel 1994 con “Relight my fire” fecero ricordare i tempi, allora non così lontani, dell’isteria di migliaia di fan osannanti per i Duran Duran), a riprova che Sanremo arriva a tutti: con le polemiche, con i superospiti, con le eliminazioni contestate, ma in qualche modo ti contagia di musica.

Trattandosi di “san” è doveroso dare la precedenza al ricordo del nostro don Lorenzo Roncalli che sceglie “Si può dare di più” (vincitrice del 1987, Tozzi-Ruggeri-Morandi) perché “inno alla generosità e al bene degli altri”. Lo stesso brano viene citato anche dal nostro Emanuele Mandelli, musicofilo senza confini e musicista, che però non riesce ad eleggerlo singolarmente, ma lo affianca a “Tutti i miei sbagli dei subsonica”, “Prima di andare via” di Sinigallia e “Salirò” di Daniele Silvestri (più un’altra decina, tra i non vincitori, che meritano di essere raccontati in un pezzo a parte). Un altro musicofilo, che se non avesse scelto la passione politica, probabilmente avrebbe fatto della musica il suo lavoro è Matteo Piloni, che come Mandelli ci prova ad elencare più brani, ma poi, messo alle strette, l’illuminazione. “Ce l’ho! ‘Chiamami ancora amore’ di Roberto Vecchioni (vincitrice nel 2011), perché è stata scritta dieci anni fa, ma sembra scritta oggi. E quando una canzone va oltre il tempo diventa poesia”.

Dai vincitori acclamati, all’eterno secondo: Toto Cutugno, che con “L’italiano” prende invece il primo gradino del podio e lo “chapeau” di Stefano Mauri che non ha dubbi. “E’ l’unico che con la sua canzone è riuscito ad unire veramente l’Italia, che neanche la Nazionale. E’ il vero inno dell’Italia, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti”.

Invertiamo la prospettiva e abbiamo due citazioni per il più famoso penultimo: correva l’anno 1983 e un quasi sconosciuto signor Vasco Rossi da Zocca gareggiava con “Voglio una vita spericolata”.

“L’anno in cui mi sono laureato a Modena, abbastanza vicina alla città natale di Vasco e al ‘Picchio Rosso’ dove faceva già il dj e al ‘Roxy Bar’ di Bologna. E poi anche la mia vita è sempre stata ‘di quelle che non è mai tardi e di quelle che non si sa mai’ ci racconta il dottoRock (ormai famosissimo oltre i confini nostrani) Maurizio Borghetti, facendosi trasportare agli anni in cui era un ‘burdel’ ancora in terra natia.

“Canzone non capita dalla giuria, ma poi consacrata come una delle canzoni più di rottura con il passato. E’ stata anche la più ascoltata tra quelle proposte quell’anno al Festival”, ricorda l’industriale e mecenate Umberto Cabini, riferendosi ancora al capolavoro di Vasco, a cui però affianca un brano, che ha il sapore di una madeleine di Proust: “Era il 1958 e Modugno cantò ‘Nel blu dipinto di blu’. Ero bambino, ma ricordo che a casa i miei genitori la cantavano insieme. Inoltre è stata anch’essa un brano di rottura e un successo planetario, tanto è vero che poi acquistai un auto di Modugno che ho ancora. Sanremo è sempre Sanremo per noi italiani”. Ad Umberto Cabini, che resta uno dei pochi veri amanti e conoscitori dell’arte nelle sue varie forme, va un grande ringraziamento, poiché tra questo Sanremo e lo scorso, nell’intermezzo dell’interminato annus horribilis, ha sempre voluto trasmettere messaggi di bellezza e positività, certo che il rilancio debba necessariamente passare dalla cultura e dalla bellezza in tutte le sue forme, musica compresa.

(continua)

barbara locatelli

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