Sanremo è finito andate in pace e riprendete pure a parlare di calcio e di sistema elettorale abruzzese

Sanremo è finito andate in pace e riprendete pure a parlare di calcio e di sistema elettorale abruzzese

John Vignola, che non è Mandelli voglio dire, è uno che di musica ci capisce, ci scrive e ci vive da anni, dopo la vittoria di Mahmood a Sanremo ha postato questa considerazione: “le polemiche sulle scelte delle giurie e quelle del televoto ci dicono che le canzoni hanno ancora una loro forza sociale, politica, aderente alla realtà. Evviva”. Edoardo Bennato nel 1980 in una sua canzone manifesto cercava di smontare il peso che veniva dato ai cantautori nell’agone politico Italiano post anni di piombo dicendo che erano solo canzonette. Nel 1963 Blowin in the wind, che Bob Dylan racconta da sempre di aver scritto in dieci minuti in un pomeriggio qualunque, diventa l’inno del Movimento per i diritti civili, dopo la sua esecuzione davanti a Martin Luther King, durante un’epocale manifestazione di protesta a Washington. La musica ha sempre, e da sempre, rivestito un ruolo importante nello sviluppo sociopolitico del mondo e da sempre ha anticipato i cambiamenti epocali.

Il Festival di Sanremo è finito in archivio. Un festival degno di edizioni epiche e infuocate, voglio ricordare ad esempio che il 27 gennaio del 1967 a Sanremo in clima festivaliero si suicidò Luigi Tenco, si dice a seguito della eliminazione della gara della sua canzone Ciao amore ciao, ma rimane uno dei grandi misteri Italici in stile Pasolini. Questo per dire che a Sanremo è sempre passata la storia del paese, non solo nelle canzoni. Ci sono un sacco di libri che raccontano di come dalla cittadina rivierasca nei giorni del festival siano passate le storie e i destini della nazione. Storie di governi rimasti in piedi, o caduti, per una canzone, un commento.

Il Festival di Sanremo è un caso mondiale unico, non esiste nazione al mondo dove musicisti di calibro presentino pezzi nuovi tutti assieme, si facciano maltrattare, eliminare, limitare, rincorrere per una settimana. Non esiste manifestazione al mondo dove per una settimana passino tutte le storie del paese.

Ma non è per quello che guardo e amo il festival. Non cerco di trovare una giustificazione sociologica alla febbre che da quando ero ragazzino mi prende per il clima festivaliero. Sono i sociologhi seri, gli Umberto Eco, che guardano il festival con distacco e analisi (ma lo guardano) per capire la pancia del paese. E anche chi sostiene di non averlo mai visto in vita sua in fondo lo guarda, e magari si vergogna.

Io lo guardo perché mi diverte. Per una settimana si parla di musica (spesso ad minchiam, per citare il professor Scoglio). L’avvento dei network sociali poi ha dato una spinta incredibile a questa deriva. Sono tornati quelli che negli anni 60/70 erano i cosiddetti gruppi di ascolto. Lì a commentare, cercare di trovare la battuta più tagliente, a dire per primi chi vincerà, a scannarsi per questi e quelli. Gente che non compra un disco dal 1953 improvvisamente è esperta come una maramaionchi qualsiasi su dinamiche del mercato, ritornelli, testi. L’Italia si sa, è un paese che conta 60 milioni di commissari tecnici della nazionale quando ci sono i mondiali, 60 milioni di presidenti del consiglio quando c’è da formare un governo e così via. Da oggi infatti basta Sanremo. Tutti lì a parlare di sistema elettorale abruzzese con correzione alla molisana.

E meno male perché così potremo tornare a parlare in santa pace noi che amiamo davvero la musica di cosa rimarrà delle 24 canzoni in gara. Si perché qualche pezzo sparirà dopo la sua passerella in radio, qualche pezzo finirà nei palinsesti di Radio Italia evergreen e forse qualche altro pezzo ci si scorderà che è passato da qua e diventerà un classico, tipo chi si ricorda che Donne di Zucchero o Vado al massimo di Vasco Rossi sono state prima di essere evergreen della musica italica canzoni arrivate per ultime a Sanremo?

Da due tra anni poi Sanremo, dove tutto pare immutabile ma tutto muta, annusa l’aria e si sposta, con calma elefantiaca ma con precisione, su quello che gira davvero. Due anni fa Gabbani e la scimmia che balla, lo scorso anno la vita in vacanza dello Stato Sociale sono state solo le avvisaglie di quello che è successo quest’anno con i Soldi di Mamhood. La vittoria del rapper italo egiziano (che poi italo egiziano non lo è, è italiano e basta) è solo la punta dell’iceberg di quello che sta succedendo alla musica italiana da qualche anno. Lo strapotere antonacciopausinano è finito. O meglio è stato relegato ad altri pubblici, stile Elvis Presley che incanta le nonne a Las Vegas nel 1977 muovendo il bacino (grasso) nei casinò.

Indie, rap, trap hanno scardinato le logiche dalla musica italiana. Generi che quasi non hanno sostegno radiofonico e televisivo, che non vanno sulle riviste, che non hanno case discografiche major alle spalle ma che riempiono i palazzetti, che neppure i nostri eroi rock degli anni ’90 hanno fatto questa cosa. Solo che chi benpensa, per citare Frankie, non si è minimamente accorto di questa cosa. Calcutta e Salmo headliner di due date del Lucca Summer festival, un festival paludato dove di solito ci sono Elton John o Sting, per dire. Gazzelle, Thegiornalisti, Guy Pequegno, Maneskin (per buttare nel calderone cose diversissime) che riempiono agevolmente Assago. E poi decine di altri nomi sconosciuti ai più: Giorgio Poi, Noyz Narcos, Frah Quintale per fare ancora tre nomi diversissimi, vi dicono qualcosa? Sappiate che magari sono autori della canzone che cantate sotto la doccia adesso. Mamhood per dire ha scritto Hola di Mengoni, Calcutta Se piovesse il tuo nome di Elisa.

Noi che amiamo la musica eravamo lì ad annusare da un po’ questo trend. Mamhood che vince, Rancore che prende con Silvestri il premio della critica, Motta che vince la serata dei duetti, Achille Lauro che è il più discusso (e divertente) del festival.

E ci fanno ridere (e anche un po’ incazare) i commenti stupiti di chi non sa che Motta viene da due Premi Tenco, che gli Zen Circus sono in giro da 20 anni, che il precedente disco di Achille Lauro è stato tra i più venduti in Italia nel 2018. Noi che amiamo la musica e la seguiamo non siamo più di tanto stupiti da queste cose. Non siamo stupiti che gli Zen Circus portino a Sanremo un testo che è la miglior fotografia della crisi della nazione e delle speranze del ceto più disagiato. E non siamo stupiti neppure (purtroppo) che Mamhood venga bollato come kebabbaro fatto vincere per compiacere il Pd (come se il Pd davvero avesse potere di vincere qualcosa oggi) e che si dica che gli Zen Circus dicano cose a caso o che di Motta si sappia che è il compagno di Carolina Crescentini e non uno che ha esordito con un disco prodotto da Riccardo Sinigallia (Riccardo chi?).

Noi siamo quelli che non pensano che siano solo canzonette ma che le ascoltano come se lo fossero, siamo quelli che perdono le ore capire i collegamenti tra un artista e l’altro, che spendono i soldi per i dischi e che quindi hanno diritto ad intasarvi le bacheche di Facebook per una settimana per poi tornare a vedere le bacheche intasate di astruse battaglie calcistiche, di incomprensibili scaramucce politiche, di fake news rilanciate come se fossero oro colato, di terrapiattisti, antivaccinisti, notav, nofax, notram. Buonanotte Sanremo, ci vediamo per l’edizione numero 70.

Emanuele Mandelli

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