Tutto quello che non ci viene detto attorno al Referendum costituzionale

Per sostenere le ragioni del No rispetto al referendum c.d. sospensivo del 4 dicembre prossimo potrei trovare innumerevoli argomenti tecnico-giuridici: l’eccessiva burocratizzazione dell’iter legislativo che da due procedimenti di approvazione ne promette otto, il rischio che si verifichi una vera dittatura della maggioranza idonea ad incidere sull’elezione del Presidente della Repubblica e sui membri del CSM, l’annichilimento dei partiti minori tramite il c.d. “statuto delle opposizioni” imposto a suon di voti da chi ha vinto le elezioni, l’accentramento del potere statuale a danno delle autonomie locali, ect…
Questa volta non lo farò.
Mi preme, infatti, focalizzare l’attenzione su un’altra questione: perché questa riforma costituzionale così ingente (47 articoli in un colpo solo)? Perché proprio ora? Perché non si possono raggiungere gli obiettivi di snellimento burocratico e di governabilità tramite la mera legge ordinaria? Insomma, qual è la ragione che sottende ad una revisione costituzionale di tal genere?
Non posso credere che il motivo sia solo quello di “svecchiare” l’ordinamento in cui viviamo. L’Italia, effettivamente, è un Paese con innumerevoli problemi, ma questi- sono convinto- trovano la loro origine nelle azioni scellerate di persone altrettanto scellerate, dedite alla corruzione, alla concussione e all’associazionismo per fini illeciti. Certamente non è colpa della nostra Carta Fondamentale e del suo contenuto.
Forse una prima risposta la troviamo in uno dei tanti slogan pronunciati dall’Ex Sindaco di Firenze: “ce lo chiede l’Europa”. Dunque all’Europa non piace, forse, la nostra Costituzione. Ma perché non la gradisce? Come possono all’Europa non piacere i nostri principi fondamentali e la struttura del nostro ordinamento? Eppure il principio di territorialità, per cui ciascuno Stato esercita la propria potestà entro i propri confini e si autodetermina anche in merito alla propria forma di governo, è sacrosanto, nonché sancito da varie disposizioni di matrice internazionale.
La verità è che l’Europa non accetta il nostro dislocamento territoriale, non simpatizza per le autonomie e odia interfacciarsi con i Comuni, le Province e le Regioni. Ovviamente, per Bruxelles, è più facile avere a che fare con un singolo Stato, anziché con 21 Regioni, ognuna portatrice di propri interessi (e di un proprio deficit). Allo stesso modo per un creditore sarà più opportuno citare in giudizio il debitore con maggiori fondi a disposizione che gli altri debitori solidali.
Da 15 anni a questa parte, il nostro ordinamento è stato interessato da una importante legislazione di decentramento amministrativo e fiscale. La nostra stessa Costituzione è stata riformata, nel 2001, in senso federale, il tutto in conformità con l’articolo 5 Cost. che prevede come la Repubblica, pur unica e indivisibile, sia composta da realtà locali da salvaguardare. Tale smistamento di attribuzioni a favore degli enti territoriali è prescritto agli artt. 117 e 118 della Costituzione e non svilisce la forza dello Stato, anzi, ne aumenta la qualità dei servizi. E’ più che logico che rispetto ad alcune materie, solo la legge regionale è più idonea ad assicurare ai suoi cittadini la copertura e l’efficienza del servizio. E ciò poiché è sempre l’ente locale a conoscere le problematiche del luogo e a comprendere al meglio gli interessi della popolazione.
Cosa può saperne Roma se le strade della città di Crema non sono asfaltate ad arte e, appena piove, si forma nuovamente il lago Gerundo? Nulla, ma logicamente non conosce nulla, anzi, scommetto che nella capitale si sa a stento dell’esistenza di Crema e del Cremasco. Come potrebbe, poi, il singolo consigliere regionale o il sindaco di un qualsiasi comune lombardo, per esempio di Abbiategrasso, portare nel nuovo Senato le istanze dei cittadini cremaschi? Rimango perplesso. Eppure ora la riforma, per cui ci accingiamo a votare, riscrive tutto, prevedendo un cambio di rotta, in senso accentratore, centralista e autoritario.
In realtà la “guerra” alle autonomie locali è iniziata tempo addietro. Non è stato Renzi a volerla, bensì Monti. Nel 2012, infatti, il tecnocrate più abile della storia d’Italia, con la scusa di voler salvare la stessa da una crisi economica senza precedenti, ha posto la prima pietra della riforma costituzionale che oggi ci riguarda. Il tutto senza che noi ci accorgessimo. Qual è, dunque, questo primo tassello che ha dato inizio a questo nuovo centralismo? Il c.d. Pareggio di Bilancio, introdotto dalla legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012. L’articolo 81 della Costituzione, così modificato, dispone che sia lo Stato ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio.
E’ lo Stato, quindi, l’unico vero “attore” di questo film drammatico diretto dalla BCE. Ma nel 2012 tutto ciò non era ancora sufficiente, le eminenze grigie europee non erano soddisfatte: serviva una riforma costituzionale, occorreva assicurare allo Stato un primato assoluto sul piano legislativo. Ed ecco la riforma Renzi-Boschi, ed ecco la riscrittura dell’articolo 117 della Costituzione.
Se vince il Sì la potestà legislativa sarà esercitata solo a livello statuale e saremo subissati di direttive e regolamenti sempre più direttamente applicabili. Dobbiamo prendere atto di tale realtà: l’Unione Europea non vuole più dialogare con la Regione Lombardia, non contiamo più nulla. Possiamo dire addio alle nostre eccellenze e, parallelamente, ai nostri bisogni. Possiamo.
Mauro Tenca, Presidente del Comitato del No-Insula Fulcheria