I giornali, quelli di carta intendo, hanno un’anima. Anima forte che sa di inchiostro, di caratteri di stampa, di notti insonni per andare in rotativa ed essere in edicola contro ogni previsione con la notizia che stupirà tutti. Da oggi nelle edicole c’è un’anima in meno. E’ quella de L’Unità. Era in edicola dal 12 febbraio del 1924. Mi ricordo che da bambino lo zio, operaio da Canavese, tornava dal lavoro con una copia del giornale tutte le sere. Era una presenza rassicurante. Erano i miei primi sguardi su un quotidiano. Un’altra presenza rassicurante poi scomparsa è stata quella de La Notte. Tornavo dal lavoro e mi fermavo a scorrerlo a casa della nonna dell’amico Carlo. Sui gradini di fronte ai giardini di Porta Serio a ridere dei titoli assurdi del quotidiano del pomeriggio, uno su tutti dopo una vittoria dell’Inter in un derby con tripletta di Klismann, il titolone a 9 colonne recitava: CataKlismann. Geni. Li ho imparato cosa era l’arte della forzatura del titolo. Una cosa simile a quella che da oggi vivono i redattori de L’Unità l’ho vissuta pochi anni or sono quando il 21 gennaio del 2012 è andata nelle edicole l’ultima copia del quotidiano La Cronaca per cui ho scritto per una decina di anni.

E’ triste quando muore un giornale. Non solo per una voce in meno nel pluralismo delle voci del nostro paese. Ma anche perché sono mille storie, mille notizie, mille cose che scompaiono da un giorno all’altro. Per qualche mattino i suoi lettori saranno spaesati in edicola, poi piano piano si indirizzeranno verso un altro giornale. Vedovi di un affetto che altrimenti sarebbe durato per sempre, perché al quotidiano si è più fedeli che al partner.

I tentativi di rilancio, immancabili, non funzionano mai. E’ sempre difficile che una testata che smette, anche solo per un giorno, di essere in edicola poi ritorni a vivere. Che strana che è questa estate senza caldo. Mentre le feste democratiche tornano a prendere il loro nome, Festa dell’Unità, perché i brand sono da mantenere, la fonte di quel brand scompare nell’indifferenza generale. Quella del Pd, impegnato su altri fronti, quella del premier che probabilmente non avrà mai comprato una copia del giornale.

Io lo compravo. Una mia lettera critica sul cambiamento del nome da Pci a Pds fu pubblicata sulle colonne di Tango, l’inserto satirico del lunedì stampato su carta marrone, il babbo di Cuore, il settimanale verde diretto da Michele Serra, nel 1992 credo. Fu una emozione vedere le mie parole stampate su carta. Forse la molla che mi ha spinto poi a cercare di intraprendere questa professione, che non è la mia professione. Non sono neppure pubblicista anche se scrivo da 20 anni.

Adesso le mie parole, da quel 21 gennaio 2012, non sono più su carta. C’è la rete, c’è questo sito che amo alla follia. Ma l’emozione di aprire le pagine del giornale fresche di stampa la mattina presto è impagabile e non tornerà mai più.

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