La canzone di un anarchico cremasco nel nuovo disco di Guccini

La canzone di un anarchico cremasco nel nuovo disco di Guccini

Il prossimo venerdì 3 dicembre uscirà nei negozi una speciale riedizione di Radici, disco storico di Francesco Guccini. Il disco, uscito esattamente 50 anni fa, nell’ottobre del 1972, contiene una delle canzoni storiche del canzoniere del cantautore: “La Locomotiva”. Da quando la canzone è uscita ha occupato un posto speciale nei concerti del Maestrone così come “Canzone per un Amica” ha aperto per 50 anni tutti i suoi concerti “La Locomotiva” li ha chiusi. Ho sempre amato questa specie di tradizione compulsiva. Sin da quando giovane ragazzino alla scoperta del cantautorato italiano ho scoperto Guccini consumandone il doppio dal vivo Tra la via Emilia e il West, uscito nel 1984, dove i quasi 8 minuti del brano diventavano una cavalcata anarchica da cantare a pugno chiuso e braccio alzato, ah quanto eravamo candidamente ingenui.

Certamente bisogna dire che la epica e tragica storia del macchinista e ferroviere anarchico Pietro Rigosi è trascinante. Un eroe tragico che il 20 luglio del 1893 a soli 28 anni si impadronisce di una locomotiva presso la stazione di Poggio Renatico e la lancia a gran velocità, per i tempi, verso la stazione di Bologna. La locomotiva venne deviata lungo una linea morta, come racconta la canzone, e si schiantò contro un treno merci posteggiato. Rigorsi non morì come narra l’epica gucciniana. Ma poco importa. Quando il cantautore conobbe la storia da un vicino di casa se ne innamorò. E come ha spesso raccontato scrisse il mitico testo in 20 minuti.

In queste settimane si è tornato a parlare del cantautore modenese per una mossa che nessuno si aspettava da lui: l’uscita di un nuovo disco. Quando 10 anni fa pubblicò L’ultima Thule dichiarò che era la fine della sua carriera da musicista. E per 10 anni si è limitato a fare una altra cosa che gli viene bene: scrivere romanzi. Qualche apparizione sporadica, il disco dell’amico di sempre Roberto Vecchioni, una canzone in Note di viaggio, il doppio tributo voluto da Mauro Pagani fatto dal gotha della musica italiana. Ma la voce pareva sempre più flebile e la voglia di cantare lontana lontana (per citare Tenco), così come quella di stare alla ribalta.

Poi all’improvviso l’annuncio di un disco nuovo. Un disco irto di tante stranezze. A partire dal titolo Canzoni da Intorto. Altre anomalie sono saltate all’occhio subito: la casa discografica, la Bmg al posto della storica EMI che ha edito i suoi dischi a partire dal primo Folk Beat numero 1. Ma poi anche il contenuto del disco: solo cover di brani che Guccini ha amato. Ma all’inizio davvero poco si sapeva. Poi altre anomalie sono salite a galla all’uscita: nessuno dei musicisti storici che lo hanno accompagnato da sempre sono presenti nel disco, neppure l’amico e sodale Flaco Biondini.

Ma il disco è una sorpresa. Ma ci torneremo. Una delle cover contenute nel disco si intitola “Nel fosco fin del secolo morente”. Nel lungo scritto contenuto nel libretto del disco Guccini dichiara di non sapere chi sia l’autore del brano che però per epicità della storia ha sempre considerato l’antenata della sua “La Locomotiva”.

Il testo in effetti ha un afflato epico. Lo riportiamo:

Nel fosco fin del secolo morente, sull’orizzonte cupo e desolato, già spunta l’alba minacciosamente del dì fatato. Urlan l’odio, la fame ed il dolore da mille e mille facce ischeletrite ed urla col suo schianto redentore la dinamite. Siam pronti e dal selciato d’ogni via, spettri macabri del momento estremo, sul labbro il nome santo d’Anarchia, Insorgeremo. Per le vittime tutte invendicate, là nel fragor dell’epico rimbombo, compenseremo sulle barricate piombo con piombo. E noi cadrem in un fulgor di gloria, schiudendo all’avvenir novella via: dal sangue spunterà la nuova istoria de l’Anarchia.

Dinamite e barricate. Anarchia ed epicità. Ma davvero non si sa chi l’ha scritta? No. Lo racconta Guccini stesso. Nella serata del 27 novembre scorso ospite da Fabio Fazio racconta un po’ la genesi del disco e parla anche di questo brano svelandone l’autore: tal Luigi Molinari da Crema. E qui trasalisco. Per 20 anni sono andato a caccia di storie di illustri concittadini raccontandone anche di misconosciute ma questa mi è sempre sfuggita.

Una rapida ricerca mi permette di assicurarmi che si, la storia è vera. Molinari è nato nella nostra città il 15 dicembre del 1866. Era un avvocato, anarchico e pubblicista. Così recita Wikipedia, che ci tratteggia anche la storia della sua vita dipingendolo come: “una delle figure di maggior spicco della sinistra a Mantova”, oltre che direttore de La Favilla, periodico internazionalista fondato da Paride Suzzara Verdi e fondatore il giornale Il Grido dell’operaio.

La canzone in questione ha una storia particolare. E’ infatti conosciuta anche come “Inno del Molinari” cantata nel corso dei moti della Lunigiana del gennaio 1894, di cui il Molinari viene accusato di essere il principale promotore. Tanto che la canzone diviene una prova della cosa, spingendo il tribunale militare a condannarlo a 23 anni di prigione per i fatti. Pena ridotta poi a 7 anni in Cassazione, anche perché il Molinari non si trovava neppure in Lunigiana all’epoca dei fatti e la condanna aveva fatto molto discutere l’opinione pubblica di allora, tanto che Il Giornale di Brescia, ispirato dall’on. Zanardelli lanciò una campagna di sensibilizzazione che si trasformò in una lettera sottoscritta da 35.000 cittadini milanesi ed indirizzata al re per ottenerne la liberazione.

Insomma una storia epica che si capisce come può essere considerata la nonna della storia epica (ed in fondo coeva per svolgimento, entrambe cadono nel 1893/4) del Rigosi che ispirò Guccini. In rete ovviamente si trovavano già delle versioni del pezzo, ma quasi tutte nello stile marziale delle esecuzioni dei canti anarchici, fatte di voce e chitarra. Guccini nel suo nuovo disco invece la tratta come tutte le altre canzoni che compongono questo mini canzoniere.

Arrangiamenti da combact folk che possono ricordare certi Gang o certi Modena City Ramblers, e ritmi sostenuti. Qualcuno tra i miei cari amici appassionati di musica si è chiesto a cosa potessero servire oggi, ne 2022, le ennesime versioni di brani molto conosciuti come “Morti di Reggio Emilia” o “Addio a Lugano”. Può sembrare tremendamente anacronistico, o privo di significati, oggi uscire con brani del genere.

Ma ci sono diverse chiavi di lettura per collocare questo strano disco, che ha anche la particolarità di non essere uscito in nessuna forma digitale ma solamente nei vecchi e cari formati fisici: LP e CD. Quando nel 2015 Bob Dylan uscì con Shadows in the Night un disco fatto di standard pop della cultura americana, seguito poi dal gemello Fallen Angel, in tanti si chiesero che senso avesse l’operazione. Pezzi da crooner editi in decine di versioni proposti pure con la voce traballante di miser Zimmerman. Eppure il disco ebbe il merito di riportare aotto i riflettori schegge della cultura musicale americana, che in fondo ha molti meno anni della cultura musicale italica.

Insospettabile poi pensare che il folk di Dyan potesse avere delle radici che portavano a pezzi tipo “Autumn Leaves”. Paradossalmente in Italia Franco Battiato aveva anticipato il discorso di oltre 15 anni quando nel 1999 pubblicò la prima pietra della strana trilogia di Fleurs. E’ di questi giorni anche la scelta di  Bruce Springsteen di ripercorrere le vie del soul con Only the Strong Survive.

Una prima chiave di lettura a certe scelte può essere individuata nel fatto che un certo tipo di musica, che quando eravamo giovani era “la cronaca” oggi sia diventata “la storia”. Si è classicizzata. Così oggi ci sono gruppi di fior fior di musicisti che propongono i grandi classici del rock come se fossero partiture di musica classica, come in fondo oggi sono.

Sotto questa luce quindi non è sbagliato riportare a galla antiche per quanto conosciute canzoni di lotta. Ma il disco di Guccini non è solo quelle due tre canzoni che quelli della mia generazione e di quelle prima conoscono bene, come le già citate, ma è anche soprattutto canzoni sconosciute come quella di cui abbiamo raccontato la storia del nostro concittadino.

Ma forse mi sto facendo un sacco di pindariche masturbazioni per spiegare il senso di un disco che un senso in fondo forse non lo ha, per citare Vasco. In fondo lo dice Guccini nel già citato libretto. Parafraso: eravamo a pranzo con quelli di Bmg, è uscito il discorso di un disco di cover di brani che mi piacciono, non l’avevo fatto allora per vari motivi, tra cui l’ostracismo del mio storico manager. Adesso che non ho più alcun impegno il disco me lo faccio. E che c’è di male in un lucidissimo (l’abbiamo visto ieri sera) signore di 82 anni che ha voglia di cantarci le canzoni che ha amato in gioventù? Nulla direi. La vedo come quando mio nonno mi raccontava le sue storie di combattente, disertore, partigiano. Un bel momento di storia in fondo innocuo ma pieno di belle vibrazioni.

La lucidità, abbiamo detto, è ben salda. La voglia di scherzare pure, questo disco secondo me ha più di un legame con Opera Buffa, quello strano essere dal vivo del 1973 dove Guccini di proponeva brani popolari, brani suoi ironici, assurdi talkin blues. Che senso aveva? Poco. Ma era tremendamente divertente. E potrei chiudere qui. Ma c’è il disco. Gli arrangiamenti e la produzione sono stellari. La voce è tornata non dico quella stentorea degli anni d’oro ma una bella voce. Le canzoni sono belle. E allora viva Guccini che ci ha intortato ancora tutti.

Ah già. L’assurdo titolo di cui dicevamo ad inizio pezzo. Ci scherza su anche lui, rivedetevi l’intervista di ieri sera. “Ma vi pare che si possa intortare (affascinare, provarci…) una fanciulla con brani del genere?”. Il titolo, in sé geniale, (avreste preferito un titolo più didascalico?) ci sta perfettamente su questa operazione. E poi… poi c’è quel brano fantasma che arriva a tradimento dopo il pezzo di chiusura. Un brano cantato in Ucraino che uno pensa e che sarà mai visto il tono del disco? Un antico canto popolare di lotta? Ma no è la sigla di Servitore del popolo, il serial satirico della tv ucraina dove recitava nel ruolo di presidente per caso l’attuale presidente Ucraino Volodymyr Zelens’kyj, che è un po’ come se Dylan avesse chiuso il suo disco di standard con la sigla di Happy Days. Un geniale testacoda per riportarci all’attualità ma in fondo con il sorriso sornione che Guccini ha sempre avuto.

emanuele mandelli

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