Per noi le biglie erano sì un gioco, ma soprattutto un commercio. Alla Borsa valori della Strada bassa il “listino biglie” raramente mutava il corso dei valori commerciali. Le dimensioni stabilite erano quelle di una ciliegia, on ghèll püsee o vûn de mên, ma sênsa esagerâ. Ai livelli più bassi vi erano sempre le “cicche” di coccio, moneta di uso spicciolo di cui ognuno di noi aveva le tasche piene. Non c’era distinzione di colore: che fossero marroni, verdi o granata valevano sempre un cazzo. Qualcosina in più quelle gialle cacchina oppure quelle celestino latteria. Comunque poca roba, perché era il materiale stesso a deprezzarle: se gli mettevi un piede sopra si spaccavano in due e arrivederci e grazie. Tuttavia possedere un “biglione” di terracotta assicurava qualche credito in più, a condizione che non fosse più grosso di una noce, altrimenti venivi spedito a giocare a bocce con i “grandi”.

Un gradino più su stavano le palline di vetro, classificate in maniera insindacabile a partire dal basso: una “cicca” di vetro opaco, generalmente bianco tipo neon andato a male, costava comunque una dozzina di fôfètte più qualche figurina rara dei giocatori delle squadre di calcio meno blasonate. Il vetro trasparente cominciava a essere considerato un oggetto di lusso che, nella trattativa, escludeva le biglie “povere”: sul piatto dovevi mettere almeno un album di “Capitan Miki” oppure di “Pedrito el drito”, altrimenti non c’era niente da fare. Per non dire del vetro colorato: se aspiravi a una biglia di quel tipo dovevi letteralmente inventarti la vita. Vi siete mai chiesti perché ai nàrigiàtt era interdetto l’accesso alle botteghe dei barbieri il sabato e la domenica mattina? Perché quei ruffiani offrivano in omaggio ai clienti adulti gli eccitanti calendarietti profumati raffiguranti donnine in abiti succinti. Se entravi in possesso di uno di quei “peccati di lussuria” potevi andare a trattare direttamente con i màlnàtt del mercato nero di Porta Genova. Dodici paginette al borotalco e tornavi a casa con una carriola da muratore piena di “cicche” tipo fritto misto.

Un discorso a parte meritano le biglie di ferro, che non erano particolarmente indicate per i nostri “innocenti” giochi. Troppo pesanti, anche se dovevi “cannellare morbido” con indice (unghia) e pollice. Peggio andava per il giocatore che optasse per la soluzione di forza, quella con pollice e medio (sempre unghia), che sarebbe a dire “cannellata dura con spinta”. Per i profani spieghiamo che il verbo “cannellare” deriva arbitrariamente dal sostantivo femminile cànêla, che nel nostro caso non è una pianta delle Indie orientali bensì un mattarello o, se preferite, uno spianatoio per tirare la pasta. In altri termini, un oggetto atto a offendere. Di conseguenza va da se che, nel nostro caso, “cannellare duro con spinta” significava “non fare prigionieri”. Ma anche essere disposti a pagarne le conseguenze, perché dài e dài, e poi dai, l’unghia nera e martoriata era assicurata, come se avesse dovuto patire una feroce martellata.

N acque uno specifico mercato nero perché per il possesso delle biglie di ferro si registrò un incremento impressionante di sparizioni di cuscinetti a sfera. Segno che i tempi stavano cambiando e anche per noi l’innocenza andava via via sfumando: eravamo diventati un poco più grandi e soprattutto stavamo incominciando a distinguere il bene dal male, a seconda dei punti vista e dalle biglie che uno aveva in tasca.

Beppe Cerutti

 

La foto è stata presa dalla pagina facebook Milano sparita e da ricordare
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