Il 25 aprile del ’45 la mamma del Susino l’era già maritata, andata in sposa nel mese di febbraio con un sì frettoloso davanti al prete, che anche lui aveva paura. Lo sposo sembrava uno straccione e in tasca aveva una pistola, ma sorrideva alla sua donna di sempre, complice fin da quando, bambini, andavano a rubare le susine; figuriamoci cosa ci voleva per quei due combinare il matrimonio. Un piano perfetto. Era sceso dalla collina per riparare e assumersi responsabilità davanti a Dio e agli uomini. Perché la mamma del Susino gli aveva fatto sapere, ma non solo a lui, che teneva la pancia imbarazzata e a quell’uomo non gli pareva vero d’avere un figlio. Però mica era venuto solo, perché i testimoni dovevano avere il fazzolettone rosso al collo e qualcos’altro in tasca, meno visibile ma facile da capire. Questo succedeva a febbraio, ma mica era vero che la mamma del Susino fosse incinta. Avevano sbosîato per amore, ché se lui fosse rimasto ucciso, lei almeno sarebbe rimasta vedova del suo Suso e non di un pirla qualsiasi.

Però alla mamma e al papà della mamma del Susino, che il Suso lo annusavano un po’ poco, a quella roba lì non ci credevano proprio per niente, perché a sentire la storia della figliola le date proprio non tornavano: il “peccato”, aveva raccontato lei senza neanche abbassare gli occhi, si sarebbe verificato poco dopo l’8 settembre del ’43 e da che mondo è mondo per sgravidare ci vogliono nove mesi e il Suso, in quei giorni travagliati, era passato sì da casa loro, ma giusto per cavarsi la divisa, arraffare una pagnotta e scappare in montagna con lo zaino in spalla. A meno che quei due fossero una fata e un mago, di “consumo”, sia pure prematrimoniale, non era proprio il caso di parlarne. Forse un bacio. Ma da settembre del ’43 a febbraio del ’45, insomma, su queste cose la gente è mica scema. Da buoni cristiani fecero presente il loro dubbio al novello genero, il quale rispose loro: “Sì lo so, è stata tutta un’invenzione, una bosîa, ma il mio Susino o ha quella mamma lì oppure niente, ma a questo ci penseremo quando la guerra sarà finita.”

Torniamo al 25 aprile 1945, che ancora c’era tanta gente che si nascondeva. Forse non cattiva ma disperata. Impaurita. Una di queste capitò davanti alla porta di casa della mamma del Susino: “Dammi da mangiare o t’ammazzo.” Patate bollite affogate in un bicchiere di vino.

“Come ti chiami?”

“Mi chiameranno la mamma del Susino, come il suo papà, che lo chiamano Suso.”

“La mia mamma la chiamavano Mela, perché nell’orto c’era un bell’albero di mele, ma se dovessi avere un figlio cosa faccio – disse ridendo -, mica lo possa chiamare Melino!”

“Sì, perché adesso che c’è la libertà lo puoi fare.”

L’uomo se ne andò: “Mi avresti ammazzata?” chiese la mamma del Susino.

“No, ma ti avrei rubato nella dispensa, perché per tornare a casa dalla mia bella la strada l’è lunga.”

Solo a giugno tornò il Suso, un po’ spiegazzato ma felice: “Tè ascolta mo bén, ma se per caso invece del Susino facciamo una bambina?”

“La chiameremo Melina.”

“Melina?! E perché non Susina?”

“Lascia fare a me, che se dovesse andare così gli ho già trovato il moroso, anche se non so dove abita.”

Susino nacque nel marzo del ’46 ma alla sua mamma, pur con tutto quel c’era da fare, non passò mai di mente il piccolo Melino. E ancora tanti anni dopo, quando si celebrava il 25 aprile, era sempre lì a fantasticare: “E adesso, che anche piove, chissà cosa starà facendo adesso il Melino?”

Beppe Cerutti

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