Ho violato donne e chiese a mio piacimento senza doverne rendere conto; le prime perché soldato che dal diritto di saccheggio esige immediatamente il minimo della profanazione, le seconde per il gusto legittimo di far soldi. Ho deciso della morte di pezzenti senza un tozzo di pane e della vita di chi si adornava di porpora e pagava riscatto, ma trafissi chi mi offriva solo oro, come se bastasse! Altro era importante, perché anche se il saccheggio dura a lungo, poi arriva la carestia. Farina, fave, orzo, olio, carni essiccate e otri di vino e salumi, scorte d’acqua da poter bere senza ammalarsi, fieno per i cavalli. Di ciò andavo in caccia. Se Roma morì di fame, sicuramente ne fui il principale responsabile. Quando arrivò il tempo del ritorno mi misi in viaggio con un carriaggio capace di sfamare l’intero mondo dei predoni sempre troppo ebbri. Un pugno di farina valeva quanto l’oro dell’assoluzione dei peccati: prendere o lasciare, sempre sul filo della spada, sulla punta delle picche, che ormai innalzavano teste mozzate più per rabbia che per divertimento. Venni maledetto dai saccheggiatori sporchi di sangue, ma io non ho mai avuto una casa, solo rifugi. Barattavo vite per fame e con l’oro dell’assoluzione dei peccati lusingavo i pezzenti a cedermi donne e scrofe da ingravidare. Tutto ha un prezzo quando la strada per tornare da dove si era partiti appariva troppo lunga e neppure più la spada bastava. Il saccheggio ormai rendeva solo paura e i cavalli erano esausti. Ricordo che in quella terra resa molle dal sangue, sempre di meno si contavano le picche issanti teste mozzate. Un guerriero affamato immerse il suo lugubre trofeo nel fango e gli pisciò sopra con sommo disprezzo verso se stesso: questa è la nostra ultima traccia. Mi resi conto che il potere dei metalli stava cambiando verso e in quel guazzo maleodorante rovesciai avorio sacro e pietre preziose, calici eucaristici ancora incrostati di vino, messali e pantofole bizantine e unguenti: insomma, tutto il luccicar delle ricchezze. “È vostro, ma sappiate che qui nascerà la mia città.” Non mi soffermo sul gaudio dei pezzenti che mi attorniavano: lupi affamati che si dispersero per le campagne circostanti e che mai più ritornarono. Andare a vendere oro saccheggiato entro le mura della città derubata, è mestiere pericoloso e che non lascia scampo.

Chi rimase, invece, ebbe in cambio solo doveri: semi da coltivare e radici per piantare vigne e alberi di frutta, legno dei boschi da tagliare e sbozzare e metalli da forgiare, pietra grezza da squadrare per robuste difese da erigere. In questa mia città s’innalzarono grandi fuochi di lavoro e fumi piacevoli di cucina. Guidandolo, assistetti al miracolo senza neppure troppo stupore e quando, ancora in vita mi fecero beato, notai che anche le angurie e i gerani esprimevano soddisfazione. Sì, il Padreterno è un tipo piuttosto bizzarro e benevolo; anche lui, poveretto, non ha mai avuto una casa sua, ma si è dovuto accontentare dei rifugi che le sue creature si sono degnate di trovargli. Da noi si trova bene.

Beppe Cerutti

 

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