Venerdì 28 giugno alle 21 a Torre Pallavicina a Palazzo Barbò, all’interno del programma di Odissea, si tiene la presentazione e del catalogo della mostra tenutasi lo scorso anno dedicata a Piero Manzoni nel cinquantenario della sua scomparsa. Il volume raccoglie il saggio del curatore Alberto Dambruoso, la nota introduttiva del sindaco di Torre Pallavicina, Antonio Marchetti Lamera, le foto delle opere degli otto artisti invitati a dialogare con il grande maestro nato a Soncino. Approfittiamo dell’occasione per raccontare in breve la storia di uno dei più grandi artisti cremaschi di sempre.
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Il 6 febbraio del 1963, all’età di ventinove anni, un attacco di cuore portava via un artista geniale: Piero Manzoni. A 50 anni dalla scomparsa dell’artista cremasco ripropongo il racconto che scrissi alcuni anni fa su di lui e contenuto nel libro Bodyart jazz.
“Mamma che ne dici di un romantico a Milano? Fra i Manzoni preferisco quello vero: Piero”, cantano i Baustelle. Chissà cosa avrebbe pensato Alessandro Manzoni di quel pro nipote degenere che inscatolava la merda, e per questa è diventato famoso. Avrebbe pensato probabilmente tutto il male possibile di uno sfaccendato che metteva le persone su un piedistallo chiamato base magica facendo di ognuno un opera d’arte.
Ma anche il mondo è stato opera d’arte per Piero, la base magica due era impiantata capovolta a sostenere tutto il mondo. La totalità del mondo per uscire dalle cornici perché: “il quadro è finito; una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta a una specie di recipiente . Perché invece non vuotano questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”.
Cosa aspettarsi da uno che ha fatto il liceo con Nanni Balestrini e Vanni Scheiwiller, uno amico di Lucio Fontana prima che divenga Lucio Fontana, uno che avrà una nipote martire dall’arte?
Volevo solo rendere l’arte incolore, Achromes. Come quelle tele ricoperte di gesso grezzo, caolino, su quadrati di tessuto, feltro, fibra di cotone, peluche o altri materiali, sue opere più famose dopo la merda. I Nucleari e il Gruppo zero di Düsseldorf. La radicalizzazione della vita, fino a morire a soli 30 anni per infarto nel suo studio milanese in una via che ora porta il suo nome. Estremizzazione. Come quando tra il 1959 e il 1961 prende a disegnare solo linee. Sempre più lunghe. Su rotoli di carta che poi vengono sigillati in contenitori cilindrici. La più lunga, sette chilometri e 200 metri, è seppellita non si sa dove a Herning in Danimarca. “Perché preoccuparsi di come collocare una linea in uno spazio? Una linea si può solo tracciarla, lunghissima, all’infinito…l’unica dimensione è il tempo”.
Ma di tempo non ne ha molto. Riesce a formare opere d’arte bollite, uova sode, che vengono consumate durante la mostra, firma una scarpa del pittor Mario Schifano e la dichiara opera d’arte, firma delle modelle, e poi il suo pubblico dichiarandoli opere d’arte e mandando in totale corto circuito l’arte. Vende la sua merda a peso d’oro realizzando che gli estremi tra alto e basso, tra corpo e arte, tra genialità e cialtroneria, si tocchino.