Il fiume senza fine, l’ultimo viaggio dei Pink Floyd (una seconda recensione)

Il fiume senza fine, l’ultimo viaggio dei Pink Floyd (una seconda recensione)

David Gilmour l’aveva promesso” “sarà un album emozionale ed evocativo” e ancora, “Occorre entrare nello spirito giusto, per ascoltarlo. C’è ancora un sacco di gente che ama ascoltare la musica in questo modo, cioè prestando attenzione a un’opera nella sua completezza e cercando di entrare nel mood della stessa, invece che limitarsi a fruire di singoli brani più brevi.” Con queste premesse alla fine è uscito l’attesissimo The Endless River, il fiume senza fine.

Già la copertina, anticipata sulla rete, è di per sé fortemente evocativa: un giovane barcaiolo che rema su un mare di nuvole verso la luce. Un’immagine che ci riporta a Caronte traghettatore di anime dall’esperienza umana a fra “color che son sospesi”. Ed è questo che fa il nuovo lavoro dei Pink Floyd: ci traghetta dal rumoroso, fastidioso e spesso inutile vociare del nostro tempo, alla sospensione spazio temporale dove la loro musica trasporta chi l’ascolta. E lo fa con la forza di un salto nel vuoto che invece di farci precipitare ci lascia sospesi come fossimo corpi nell’assenza di gravità nello spazio.

Il salto dell’anima fuori dal corpo. In un mondo di musica usa e getta, così come l’ha ben definita l’amico Paolo Cella, di Spotify e di You Tube dove tutto è frammentato in tracce, i Pink Floyd ci riportano al tempo dell’ascolto, di un ascolto che richiede tempo e riflessione: la struttura stessa dell’album in quattro parti dove le tracce sono un continuo divenire, ci ferma, ci costringe alla visione d’insieme, un insieme dove passato (The Endless River è un verso di High Hopes, pezzo che chiude The Division Bell), presente (splendido e attuale arrangiamento dei pezzi di Rick Wright) e futuro (come non vederci una visione, la visione del destino dei Pink Floyd) coesistono in tutt’uno armonico. “The Sum is better than the parts” echeggia la voce di Nick Mason nella intro vocale di Things Left Unsaid.

Tanto tempo fa un mio insegnante di matematica mi disse che l’universo era descrivibile con un’equazione matematica che, se risolta, portava ad un’armonia musicale: l’armonia dell’universo è musica, quindi. In questo ultimo lavoro dei Pink Floyd ci vedo un allungare la mano per afferrare quell’equazione, un tentativo di essere un ponte fra noi e l’armonia dell’universo. Perchè è in quell’armonia, che è un fiume senza fine, che si trova il senso del nostro esistere. E se vogliamo percepirla dobbiamo fermarci e mettere in ascolto la parte più profonda e più vera di noi stessi: il nostro spirito.

E’ l’ultimo atto. L’ultimo sublime atto con cui i Pink Floyd ci salutano per sempre: non è solo il canto del cigno di Rick Wrigth, ma è anche un saluto, l’inchino del musicista, a noi che abbiamo amato e seguito negli anni questa rock prog band visionaria, futurista, unica e che (almeno a me) ci ha regalato momenti di estasi musicale irripetibili. Un addio che lascia aperte delle idee, delle suggestioni, che se altri sapranno cogliere, altri potranno sviluppare. Questa è l’eredità di The Endless River e questa consapevolezza mi spezza il cuore.

Che dire infine? Promessa mantenuta, dunque, grazie David Gilmour, Nick Mason e Rick Wright. Ancora per una volta, l’ultima: grazie Pink Floyd.

Monica Buscema

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