Il cavalier Lametta, nome di battesimo Santarcangelo protettore dei caseifici, uscì dal palazzo nobiliare di donna Franziska zu Rewentlow con la sensazione di essere definitivamente entrato nelle di lei grazie. Il casto bacio che issa aveva accettato sulle gote sorridenti lo riempiva di fremiti. Pure l’agevolezza con cui, durante la cena, s’era conversato di cose antiche, con l’amore che si deve alla polvere che le ricopriva, gli aveva riempito il cuore di speranze. Se ancora uno poco gli fosse riuscito di commensare privatamente dentro la cucina, avrebbe ottenuto un appoggio politico che lévati. Di altra occasione auspicava di poter opportunare per i suoi fini.
Il cicisbeo già se li vedeva i manifesti: Vota e fai votare Cavalier Santarcangelo Lametta. Candidata a Vicesindaco donna Franziska. Foto belle e grosse. La sua come una tovaglia, quell’altra picciridda, come s’addice all’aristocrazia che fa sapere che c’è ma non vuole apparire.
In pochi lo sapevano, ma la francescana era ricca sfondata e amministrava fruttuosamente i beni di tutta una famiglia che altrimenti avrebbe dovuto camminare su tacchi bassi. Come la famiglia Agnelli. Ma l’umano ronzinante conosceva le fondamentali differenze: zoppicare perché ti fai le seghe sulla neve di stagione oppure zoppicare perché i bilanci non tornano, nonostante la buona volontà. La sua aristocratica amica sorrideva solo alla buona volontà.
Il cavalier Lametta, augurando la buona notte alla dama e uscendo dal portoncino del palazzo sollevando la bicicletta (precedente omaggio della nobildonna) era sicuro e spavaldo come Attila. Oltre al velocipede, in dono portava l’investitura: un quarto di forma di formaggio grana donatogli, quale simbolo di benevolenza, dall’insigne ospite.
Data l’ora ancora incerta della notte, pensò bene di impreziosire il trionfo con un passaggio all’osteria sua solita, per rinfrancare la bassa manovalanza che aveva smesso di pagare i calici in quanto militanti della lista di sostegno. Libiam libiamo e gustiamo del dono prezioso, stagionato e saporito. Già si era al terzo bottiglione, quando il garzone di turno, sicuramente per consapevolezza di mestiere, ma anche per vezzo declamatorio, pose il capo all’interno del baccanale: “Cavalier Lametta, allarme. Ciularongli la bicicletta!”
Immantinente si scateneranno i sostenitori più vivaci: becchiamo il malfattore, mentre altri fecero cerchio paramedico per rianimare il loro paladino, còlto (pps verbo cogliere) da un principio di collasso psico-somatico: con qual animo si sarebbe potuto ripresentare all’uscio della protettrice, confessandogli sì banale verità? Per la madonna! Si stava acconciando per amministrare le risorse pubbliche verso lidi congrui e di sotto il culo gli sfuggivano i pedali. Una vergogna.
“Ovviamente lo voglio vivo o morto.”
Il cavalier Lametta patì la sua Canossa senza per altro riceverne adonto biasimo, ché il rimbrotto fu ridotto ad un materno scappellotto dialettale (“Ta set prôpi ‘n giàvân”), ma dal quale ebbe modo di ricavarne una istruttiva morale: donna Franziska forse conosceva poco i potenziali e futuri elettori ma assai bene tutti i ladruncoli di biciclette presenti in città. E il velocipede tornò sotto gli androni del palazzo, ove tuttora giace quale monito per tutti i superficiali, nelle cui schiere entrò a far parte definitivamente anche l’incauto e rammaricato merendone. Visse terribili momenti di delirio, anche biblico: “Boia di un mondo ladro, la fetta di formaggio l’ho compartita con gli avventori, che mi sembravano delle cornacchie affamate. Giuro, lo anche benedetta affinché, badate a cosa vi dico, affinché, si moltiplicasse. Cazzo! Se non fosse per quello che go besiâ alla mensa della signora, neanche so che sapore ha quel formaggio!” Non seppe mai perché fu concesso il perdono, ché a quei tempi le colpe si pagavano passando sotto la macina esagerata del mulino ad acqua. Gli fu concessa la vita, perché il suo compito era quello di raccontare una storia che poi sarebbe rimbalzata di muro in muro, dentro finestre di carta assorbente murate da zanzariere, setaccio di leggende.
E la leggenda racconta che il cavalier Lametta venne acconciato a mo’ di zerbino posto all’ingresso della casa municipale, dove l’eterea quanto regale figura di donna Francesca si recava quotidianamente per assolvere i compiti di Prima cittadina della città. Entro le mura riecheggiarono elogi e al cielo salirono ringraziamenti per oltre due secoli. Predispose affinché alle risorse pubbliche competesse il dovere d’innalzare una pietra commemorativa della dabbenaggine degli ambiziosi. La cittadinanza rispose da par suo, solo che al posto del duraturo granito pose, in data commemorante, l’effige del celebrato in forma plastica di formaggio grana. Ognuno, ancor oggi, ne può approfittare in relazione alle capacità d’assorbimento del proprio stomaco. Un dì di festa, con vino che corre a fiumi. Alla faccia del cavalier Lametta e in gloria di Franziska zu Rewentlow.
Amen.
Beppe Cerutti